Cerca

Attualità

ThyssenKrupp 18 anni dopo: Torino ricorda i morti, tra dolore senza giustizia e continui incidenti sul lavoro

Alla commemorazione dei sette operai parole durissime dei familiari e richiami severi delle istituzioni: sicurezza sul lavoro ancora lontana dall’essere garantita

ThyssenKrupp 18 anni dopo: Torino ricorda i morti, tra dolore senza giustizia e continui incidenti sul lavoro

ThyssenKrupp 18 anni dopo: Torino ricorda i morti, tra dolore senza giustizia e continui incidenti sul lavoro

Diciotto anni dopo, Torino si ritrova nello stesso punto: davanti a un memoriale, con sette nomi incisi nella pietra e una verità che non ha smesso di ferire. La tragedia della ThyssenKrupp, la notte del 6 dicembre 2007, rimane una delle pagine più drammatiche della storia industriale italiana. E, anno dopo anno, la commemorazione al Cimitero Monumentale diventa il termometro di un dolore che non conosce attenuazioni. Anche questa mattina, mentre la città osservava in silenzio, i familiari degli operai hanno riportato la discussione su un terreno che nessuna sentenza, nessuna formula giuridica, nessun rito civile è riuscito a pacificare: quello della giustizia percepita come incompleta.

Non c’è stato spazio per discorsi di circostanza. È stata Laura Rodinò, sorella di uno dei lavoratori morti nel rogo, a incarnare la frattura ancora aperta tra verità processuale e sofferenza delle famiglie. Ha chiamato i parenti intorno a sé, quasi a voler dire che l’unica lingua possibile è quella condivisa da chi ha perso qualcuno in condizioni che non lasciano tregua. Le sue parole sono state taglienti: «gli assassini che sono ancora fuori dalla galera». Un concetto ripetuto senza filtri, accompagnato da un dolore che non si nasconde: «Un dolore così, una morte così penso che nessuno di noi la auguri al nostro peggior nemico, ma io lo auguro ai maledetti assassini». Una frase che scuote e che restituisce, senza mediazioni, il punto di vista di chi ha visto il proprio mondo crollare in un incendio evitabile, frutto di negligenze e omissioni.

L’apertura emotiva della cerimonia ha trovato risposte diverse nelle istituzioni presenti, chiamate a riconoscere la gravità del passato ma anche a misurarsi con un presente che non offre segnali rassicuranti. Il sindaco Stefano Lo Russo ha definito i sette operai «l’esempio dell’Italia migliore», segnati da un dovere quotidiano che quella notte fu tradito da falle nella sicurezza e da un’organizzazione del lavoro che ignorò campanelli d’allarme familiari anche ad altre realtà industriali. Lo Russo ha parlato di vite «stroncate dall’incuria» e della necessità di trasformare la memoria in un impegno collettivo fatto di norme, controlli, sanzioni e soprattutto di una cultura che riconosca la sicurezza come un principio primario, non subordinato ai ritmi produttivi.

Il richiamo alla prevenzione è stato ancora più netto nelle parole della procuratrice generale Lucia Musti, presenza costante nelle commemorazioni degli ultimi anni e voce spesso critica rispetto allo stato della sicurezza nei luoghi di lavoro. Ha parlato con realismo amaro. «Sentirvi e vedere le vostre lacrime mi fanno riflettere su quasi l’inutilità della mia presenza qui», ha detto ai familiari. Ha aggiunto che «non c’è una pena commisurata al vostro dolore», e che il Piemonte continua a portare «un record terribile: quello dei morti sul lavoro». Un’affermazione che ritrae un quadro drammatico: la regione resta tra le più colpite da incidenti mortali, un dato che conferma la distanza tra la rigidità delle norme e la fragilità della loro applicazione. Musti ha insistito su un punto chiave: «Manca prevenzione a tappeto». La legge c’è, gli strumenti ci sono, ma l’etica del lavoro — ha detto — spesso manca nei datori che non si sentono responsabili della vita dei propri dipendenti.

A rappresentare la Regione, la consigliera Valentina Cera ha parlato di un tema che non ammette bandiere politiche. «Le cose non vanno bene, non stanno andando nella giusta direzione», ha dichiarato, chiedendo un investimento più serio e più continuo sulla sicurezza come diritto essenziale, non come costo. Un messaggio che oltrepassa la retorica, perché i numeri raccontano un quadro senza reali inversioni di tendenza: troppi incidenti, troppe violazioni, troppi luoghi di lavoro che continuano a operare fuori dagli standard. La commemorazione Thyssen torna così a essere uno specchio delle carenze strutturali del Paese.

La presenza dei familiari delle vittime della strage di Viareggio ha aggiunto un ulteriore livello di lettura. Due tragedie diverse, un filo comune: l’idea che la sicurezza sia un bene fragile, e che quando viene violata nessuna sentenza può soccorrere davvero chi resta. Anche per questo, le parole di oggi pesano: non servono solo a ricordare, ma a misurare quanto il sistema abbia o non abbia imparato da quanto accaduto.

Il nodo centrale, che emerge con la forza di un paradosso, è che Torino continua a essere teatro di episodi di insicurezza industriale e lavorativa che richiamano alla memoria il dramma del 2007. Ogni incidente, ogni infortunio grave, ogni morte sul lavoro che si registra nelle fabbriche e nei cantieri della provincia riconsegna alla città un interrogativo che sembra ciclico: cosa è cambiato davvero? La risposta, per quanto scomoda, è che non abbastanza. Nonostante gli obblighi normativi, nonostante la rigidità del quadro sanzionatorio, nonostante gli appelli ricorrenti, la cultura della sicurezza fatica a radicarsi.

È qui che il discorso ritorna alla Thyssen. Non come reliquia del passato, ma come monito del presente. Il processo, concluso con una sentenza definitiva, ha fissato responsabilità penali; ma nella percezione collettiva — e soprattutto in quella delle famiglie — non ha chiuso il cerchio. La rabbia di Laura Rodinò non è un eccesso emotivo, ma la manifestazione di un vuoto che il sistema giudiziario non riesce a colmare: l’assenza di una pena percepita come adeguata rispetto alla portata del disastro.

Torino oggi ricorda, ma ricorda in tensione. Ricorda sapendo che la memoria, da sola, non protegge nessuno. Ricorda perché il lavoro — quello quotidiano e silenzioso — continua a rimanere uno dei territori più vulnerabili. Ricorda perché a distanza di diciotto anni il Paese sembra ancora diviso tra chi invoca norme più rigide e chi teme che le regole rallentino la produttività. Ricorda, infine, perché i familiari degli operai, con la loro presenza, mostrano quanto sia difficile elaborare un lutto quando le cause della morte sono state prodotte da un sistema e non dal caso.

Da questo punto non si torna indietro. Ma si può — e si deve — continuare a pretendere ciò che oggi molti hanno evocato: una prevenzione reale, un controllo costante, una responsabilità non solo giudiziaria ma sociale. La Thyssen rimane un trauma collettivo, ma anche una lezione che il Piemonte non può permettersi di ignorare.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori