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Bufera sulla rettrice di Unito: “Barriera di Milano non è abitabile, non ci manderei lì mia figlia”

La frase su “un quartiere non abitabile” provoca la reazione di Cgil e Pd, mentre la rettrice Prandi si dice stupita per le polemiche

Bufera sulla rettrice di Unito: “Barriera di Milano non è abitabile, non ci manderei lì mia figlia”

Bufera sulla rettrice di Unito: “Barriera di Milano non è abitabile, non ci manderei lì mia figlia”

Una frase breve, pronunciata in Commissione comunale, è bastata per riportare Barriera di Milano al centro del dibattito pubblico torinese. La rettrice dell’Università di Torino, Stefania Prandi, ha definito il quartiere “non abitabile”, aggiungendo che non vi manderebbe a vivere una figlia fuori sede. Parole nette, pronunciate in una sede istituzionale, che hanno provocato reazioni immediate dal fronte politico e sindacale, trasformandosi nel giro di poche ore in un caso cittadino.

Il giudizio della rettrice — collegato al tema della sicurezza e della vivibilità degli studenti — ha assunto rapidamente un valore ben più ampio del contesto in cui è stato espresso. In un territorio che da anni cerca di emanciparsi da etichette e narrazioni stereotipate, l'affermazione di una figura apicale dell’ateneo è stata letta da molti come un colpo duro all’immagine di un’area già percepita come fragile. Da qui l’intervento della Cgil e del Partito democratico, che hanno parlato apertamente di rischio di “ghettizzazione” e di un linguaggio che, arrivando da un’istituzione formativa, dovrebbe essere maneggiato con maggiore cura. Non è solo una questione di contenuto, ma di responsabilità pubblica: come raccontare un quartiere senza aggravare lo stigma di chi ci vive.

La rettrice, da parte sua, si dice sorpresa dalla polemica. La documentazione disponibile riporta il suo stupore per la piega presa dalla discussione, senza ulteriori chiarimenti. Una distanza evidente tra intenzione e percezione, che racconta bene il clima politico in cui si inseriscono queste parole: un equilibrio sottile fra il diritto di esprimere preoccupazioni legittime — come farebbe qualunque genitore — e il rischio di trasformare un’osservazione personale in un giudizio che pesa sull’intera comunità.

Il nodo è quello che Torino conosce da anni: la tensione tra sicurezza reale, sicurezza percepita e narrazione dei quartieri popolari. Dire che un’area presenta criticità non è di per sé un tabù. Ma quando a farlo è una figura istituzionale, soprattutto legata al mondo universitario, il confine tra analisi e stigmatizzazione si assottiglia. Senza dati puntuali — che non sono stati forniti nel corso della Commissione — il dibattito rischia di scivolare sul terreno della percezione, finendo per rafforzare categorie semplificate che spesso non descrivono la complessità dei territori.

Questo episodio evidenzia un problema che riguarda diversi livelli istituzionali: la qualità del discorso pubblico. Università, sindacati, partiti e amministrazione condividono la responsabilità di raccontare la città senza comprimere realtà diverse dentro formule rigide. Il linguaggio non annulla i problemi, ma può amplificarli o ridurli. Può indicare una direzione oppure isolare un luogo. Ed è proprio questa la ragione per cui il caso scoppiato a Torino non è un semplice incidente verbale: è il segnale di quanto sia difficile oggi, soprattutto quando si parla di periferie urbane, trovare parole che non cancellino i problemi ma non indeboliscano chi quei quartieri li vive ogni giorno.

Nel merito, restano da chiarire due punti: quali elementi concreti abbiano portato la rettrice a formulare quel giudizio e come l’Università intenda rapportarsi con un territorio che ospita una comunità studentesca ampia e diversificata. Nel frattempo, la discussione prosegue nella distanza tra chi vede nelle sue parole un richiamo alla prudenza e chi, al contrario, le considera un messaggio corrosivo per un quartiere che da anni prova a ridefinire la propria identità.

La vicenda dimostra una cosa semplice: in una città che fatica a trovare una narrazione condivisa sui propri quartieri, le parole non restano mai isolate. E quando arrivano da un’istituzione, diventano immediatamente parte di una discussione più ampia di chi le ha pronunciate.

La nuova rettrice

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