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Cresce l’occupazione a Torino, ma la qualità del lavoro peggiora: ecco il nuovo rapporto Ires

Torino è una città che cambia, tra ripresa numerica e fragilità strutturali che rimangono

Cresce l’occupazione a Torino, ma la qualità del lavoro peggiora: ecco il nuovo rapporto Ires

Cresce l’occupazione a Torino, ma la qualità del lavoro peggiora: ecco il nuovo rapporto Ires (immagine di repertorio)

Occupazione in aumento, salari stagnanti, professionalità in calo, giovani più presenti ma sempre più precari. È la fotografia, nitida e ambivalente, che emerge dal rapporto annuale “I numeri del lavoro a Torino”, curato da Ires Piemonte con la collaborazione della Città, della Camera di Commercio, dell’Inail e dell’Agenzia Piemonte Lavoro. Una fotografia che conferma ciò che da mesi gli osservatori raccontano: Torino non è una città immobile, ma è una città che, nella sua trasformazione, continua a perdere pezzi nella parte alta del mercato del lavoro e a generarne molti nella fascia bassa. Il risultato è un paradosso moderno: si lavora di più, ma non sempre meglio.

I dati ufficiali registrano circa 15 mila occupati in più rispetto al 2019, pari a un +4% che riporta il capoluogo ai valori pre-pandemia. La quota dei contratti atipici scende di tre punti, dal 27 al 24%, un segnale che potrebbe suggerire una lieve stabilizzazione. Ma dietro questo movimento in apparenza rassicurante si nasconde un cambiamento più profondo: la crescita dell’occupazione riguarda soprattutto i settori a medio-bassa produttività, quelli che non richiedono alte qualifiche professionali. La struttura si sposta verso il basso. I lavoratori ad alta qualificazione passano dal 49 al 44%, una contrazione significativa, mentre aumentano sia il personale intermedio (dal 29 al 33%) sia quello a bassa qualificazione (dal 21 al 23%). Il mercato si restringe verso il centro e verso il basso, producendo una città dove il lavoro c’è, ma vale meno di prima.

Questo scenario pesa soprattutto sui giovani torinesi, che si ritrovano dentro un ecosistema occupazionale in movimento, ma spesso incapace di valorizzare le competenze più alte. Nel rapporto Ires le persone in “disoccupazione amministrativa” — cioè chi ha dichiarato disponibilità immediata ai Centri per l’Impiego — crescono del 2%, raggiungendo quota 45.981. Tra loro spiccano gli under 29, con un incremento dell’8%, insieme agli stranieri (+5%) e agli extracomunitari (+9%). È un segnale che riflette una dinamica precisa: i giovani cercano lavoro, ma faticano a stabilizzarsi, accumulano contratti brevi, transitori, spesso part-time involontari. Anche il dato sugli iscritti disponibili con titolo universitario sale del 2%, confermando una tendenza ormai cronica: Torino forma più talenti di quanti riesca a trattenere, specie nelle discipline meno tecniche.

A pesare è anche la geografia della città. Le circoscrizioni 5 e 6 — Borgo Vittoria, Madonna di Campagna, Vallette, Barriera di Milano, Regio Parco, Falchera — concentrano la quota più elevata di persone disponibili al lavoro. Sono quartieri dove la fragilità economica e sociale si intreccia a un mercato del lavoro poco qualificato, costruendo un circolo difficile da spezzare. La ripresa occupazionale si muove in modo irregolare, rafforzando alcune zone e indebolendone altre.

Le retribuzioni giocano un ruolo altrettanto decisivo. Torino non fa eccezione rispetto al quadro nazionale: gli stipendi medi negli ultimi vent’anni sono cresciuti molto meno dell’inflazione e, secondo le principali ricostruzioni storiche, il potere d’acquisto reale è oggi inferiore a quello dei primi anni Duemila. La forbice generazionale è marcata. Gli under 30 guadagnano in media tra il 20 e il 30% in meno rispetto agli over 45, in parte per composizione settoriale, in parte per effetti diretti della precarietà contrattuale. Nei settori dove l’occupazione giovanile è più alta — ristorazione, servizi alla persona, logistica, commercio — la retribuzione d’ingresso spesso non supera i 1.000-1.200 euro netti. È una soglia che, a fronte dei costi della vita metropolitana, soprattutto quelli abitativi, rende complicata qualsiasi prospettiva di autonomia. Non a caso, Torino assiste da anni a un flusso costante di giovani laureati che si spostano verso città dove il mercato del lavoro qualificato è più dinamico e meglio retribuito.

Dentro questo quadro, la crescita dell’occupazione non può essere letta come un indicatore isolato. Aumentano i posti, ma non aumenta allo stesso modo la qualità dei lavori. La città si ricolloca dentro un sistema produttivo ancora segnato da transizione industriale incompleta, polarizzazione dei servizi, digitalizzazione irregolare. È assente un traino forte, come lo era stato l’automotive per buona parte del Novecento; i nuovi settori avanzati — aerospazio, meccatronica, intelligenza artificiale — non sono ancora in grado di assorbire numeri tali da bilanciare la perdita strutturale dei lavori qualificati tradizionali.

Il rapporto Ires segnala inoltre che l’aumento della disponibilità al lavoro tra laureati potrebbe indicare sia una maggiore mobilitazione professionale sia un segnale di sottoutilizzo del capitale umano. Molti giovani entrano in ruoli che non corrispondono al titolo posseduto, un fenomeno che si traduce in retribuzioni più basse e minore stabilità. Il mismatch tra domanda e offerta resta dunque un nodo non risolto. Se Torino cresce, lo fa spesso in segmenti dove la qualità è più bassa e gli stipendi più fragili.

Al tempo stesso, l’aumento degli occupati in attività a medio-bassa produttività solleva un interrogativo di fondo sul modello di sviluppo della città. Una Torino che attrae lavoro non necessariamente attrae buon lavoro. E una città che non trattiene i giovani più qualificati rischia di indebolire, nel medio periodo, la propria capacità competitiva. Il rapporto “I numeri del lavoro a Torino” restituisce quindi un ritratto complesso: una ripresa quantitativa importante, che tuttavia non risolve le fragilità qualitative, anzi in alcuni casi le acuisce.

La questione generazionale resta centrale. La condizione dei giovani torinesi vive una contraddizione evidente: aumentano le opportunità di impiego, ma non aumentano allo stesso modo le condizioni per costruire un progetto di vita stabile. La precarietà continua a incidere in maniera significativa, così come la difficoltà di accedere a percorsi di carriera più strutturati. Le politiche attive non sempre incontrano i bisogni reali, la formazione è in parte sovrabbondante in alcuni settori e carente in altri. Il risultato è una generazione che lavora più di quella precedente alla stessa età, ma senza gli stessi orizzonti.

Il rapporto Ires, per quanto neutro per impostazione, suggerisce implicitamente una domanda politica: quale Torino desidera investire nei prossimi anni? Una città che accetta un modello occupazionale polarizzato o una città che sceglie di sostenere filiere ad alto valore aggiunto, dove il lavoro qualificato torni a essere la norma e non l’eccezione? La risposta, inevitabilmente, riguarda istituzioni, imprese, università, ma anche una generazione che chiede di non essere solo un numero nelle statistiche.

La crescita occupazionale registrata oggi non basta da sola a spiegare lo stato di salute del lavoro torinese. Conta la qualità, contano le competenze, conta la capacità di costruire un ecosistema dove chi studia e si forma a Torino possa decidere di restare. Su questo, i dati raccontano una sfida ancora aperta. È una sfida che riguarda tutta la città e che, per la prima volta dopo anni, non può essere rinviata.

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