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Arè, sette anni dopo la tragedia: ecco cosa resta di quella notte

Dal disastro ferroviario alla rinascita: dolore, giustizia incompiuta e la lunga strada verso un territorio finalmente sicuro

Arè, sette anni dopo la tragedia

Arè, sette anni dopo la tragedia: la sentenza che divide una comunità

Nel pomeriggio del 9 aprile 2025, quando la sentenza del Tribunale di Ivrea è stata letta in aula, Maria Antonietta Madau ha pronunciato una frase che ha improvvisamente zittito ogni mormorio: «Mio fratello è morto la prima volta il 23 maggio 2018. Oggi, 9 aprile 2025, è morto per la seconda volta». Le sue parole sono state un colpo netto, un taglio che ha attraversato un procedimento giudiziario già complesso, trascinando nel presente l’eco lontana del metallo contorto, delle sirene, del buio tagliato dai fari dei soccorritori nella notte del disastro ferroviario di Arè.

Per sette anni, quella notte delle 23:15 del 23 maggio 2018 è rimasta sospesa sulla frazione di Arè di Caluso come una ferita mai del tutto rimarginata. Il treno regionale 10027, in corsa tra Torino e Ivrea, travolse un trasporto eccezionale bloccato sui binari. Il macchinista Roberto Madau morì quasi sul colpo, così come uno degli autisti del convoglio speciale. Ventitré passeggeri rimasero feriti. I danni complessivi superarono i cinque milioni di euro. Ma il prezzo più alto non è mai stato quantificabile: il vuoto lasciato nelle vite private, la cicatrice collettiva che ha segnato un territorio abituato alla presenza della ferrovia, ma mai preparato a contemplarne il lato più tragico.

Il processo, iniziato ufficialmente nel 2024 dopo anni di perizie, atti, discussioni e rinvii, è stato presentato come il tentativo di ricostruire un frammento di verità in una vicenda dove errori umani, valutazioni sbagliate e una catena di decisioni inadeguate si intrecciavano con le rigidità di un sistema infrastrutturale fragile. La Procura aveva iscritto sei persone nel registro degli indagati. Tra questi, l’autista del mezzo pesante, Darius Zujius, e Wolfgang Oberhofer, il manager a capo della logistica del trasporto eccezionale.

Il 9 aprile 2025, il Tribunale ha assolto Oberhofer “per non aver commesso il fatto”, mentre ha condannato Zujius a due anni di reclusione con pena sospesa. Una condanna che, in termini carcerari, non comporterà effettivo ingresso in cella, ma che impone risarcimenti ingenti alle parti civili. Molti familiari delle vittime e dei feriti avevano atteso quel momento con la speranza di sentirsi, almeno in parte, risarciti. Per loro, però, non è stata una conclusione: è stato l’inizio di un nuovo dolore.

Maria Antonietta, sorella del macchinista, non ha mai saltato un’udienza. Era presente anche quel giorno, seduta accanto al marito Massimo Vedelago e al figlio Mauro. Mentre gli altri abbandonavano l’aula, lei è rimasta ferma, la voce strozzata e un’espressione che sembrava sfidare la logica della sentenza. «Non c’è giustizia. La legge è uguale per tutti? No. Non lo è. Non per noi», ha detto. Non c’era rabbia nel suo tono, ma un’incredulità che si sedimentava in ogni parola. «Mio fratello è morto quella notte. E oggi è morto di nuovo. Non so come si possa andare avanti».

La sentenza prevede 118.000 euro di provvisionale per lei, somme destinate anche agli altri feriti e alle società Trenitalia e RFI. Ma i numeri non compensano il paradosso che le famiglie sentono di vivere: la consapevolezza che il processo abbia individuato un unico responsabile, l’autista, lasciando prive di colpe figure che, secondo la parte civile, avrebbero avuto un ruolo decisivo nella pianificazione di un trasporto eccezionale che non avrebbe mai dovuto impegnare quel passaggio a livello.

La sua avvocata, Eloisa Nardella, si muove con prudenza: «È stata riconosciuta una cooperazione colposa. È un risultato significativo. C’è un responsabile civile, ci saranno risarcimenti importanti. Ma se mi chiedete se sono soddisfatta, no, non posso dirlo». In realtà, per la difesa, il 90% del risultato è stato raggiunto. Quel 10% mancante, però, per chi ha perso un familiare diventa totalizzante. È il vuoto lasciato dall’assoluzione di Oberhofer, figura ritenuta da molti il perno organizzativo del trasporto eccezionale.

La Procura, rappresentata dalla sostituta procuratrice Gabriella Viglione, ha lasciato intendere che valuterà un eventuale ricorso: «Aspettiamo le motivazioni. Solo allora decideremo». Il verdetto, dunque, potrebbe non essere definitivo. E mentre il sistema giudiziario prosegue con i suoi tempi, la comunità continua a fare i conti con un’eredità fatta di domande irrisolte e dolore sospeso.

Dal dolore alle infrastrutture: la trasformazione di Arè

Al di là del processo, il disastro ferroviario di Arè ha imposto un ripensamento radicale della viabilità nel territorio. Per decenni, la ferrovia Chivasso–Ivrea–Aosta ha tagliato la frazione in due, regolando il ritmo della vita quotidiana: lunghe attese davanti alle sbarre abbassate, file di auto, mezzi agricoli fermi a pochi centimetri dai binari. Una routine che aveva generato insofferenza e abitudine, ma che raramente aveva alimentato la percezione di reale pericolo.

Il 23 maggio 2018 ha cambiato tutto. L’incidente è diventato il simbolo di un sistema di infrastrutture incapace di garantire sicurezza in un contesto in cui i trasporti eccezionali – per loro natura lenti, ingombranti, complessi – richiedevano misure speciali e comunicazioni puntuali con la rete ferroviaria. E mentre le indagini procedevano, il dibattito si è spostato inevitabilmente sulla necessità di eliminare definitivamente il passaggio a livello.

I lavori per la soppressione sono iniziati negli anni successivi. A dicembre 2025, il passaggio a livello di Arè è stato chiuso per sempre. Dove un tempo si alzavano e abbassavano sbarre bianche e rosse, oggi ci sono blocchi di cemento. Il vecchio attraversamento non è più parte della mobilità locale: pedoni e ciclisti hanno ottenuto un sottopasso, mentre le auto e i mezzi pesanti vengono deviati su una nuova bretella.

L’opera, costata circa 16 milioni di euro e finanziata da RFI, Anas, Città Metropolitana di Torino e Comune di Caluso, è diventata il fulcro di una trasformazione più ampia. Fa parte di un piano regionale che prevede la soppressione di oltre sessanta passaggi a livello sulla direttrice Chivasso–Quincinetto, oltre a decine di altri interventi in Piemonte. È un progetto ambizioso, pensato per ridurre incidenti, fluidificare il traffico ferroviario e riorganizzare la viabilità nei comuni interessati.

Per Arè, la circonvallazione e la chiusura del passaggio a livello rappresentano una rivoluzione. La bretella stradale, inaugurata nell’estate del 2025, ha liberato la frazione dal traffico pesante diretto alla statale 26. Per anni i residenti si sono lamentati dell’inquinamento, del rumore, delle vibrazioni. Ora, una nuova arteria stradale scorre ai margini dell’abitato, lasciando il centro più silenzioso e sicuro.

Il sottopasso pedonale e ciclabile, inaugurato ufficialmente il 2 dicembre 2025, ha ridisegnato le abitudini quotidiane dei residenti. È un’infrastruttura moderna, dotata di sistemi di drenaggio automatico che si attivano in caso di precipitazioni abbondanti. L’accesso viene chiuso se le pompe non riescono a smaltire l’acqua, una precauzione nata dalle criticità idrogeologiche del territorio.

Parallelamente, opere collaterali hanno trasformato altre aree: la chiusura del passaggio a livello di via Duca degli Abruzzi, quella di via Doberdò, il futuro intervento vicino alla stazione. Nuove rotatorie hanno modificato i flussi di accesso alle zone artigianali. Tutto questo non sarebbe accaduto senza il peso della memoria.

Le istituzioni hanno lavorato per anni a un progetto che potesse rappresentare la risposta più concreta a una tragedia che aveva mostrato la fragilità di un sistema. Ma per molti cittadini, il cambiamento infrastrutturale è arrivato troppo tardi. «Le barriere non scenderanno più», ha commentato un residente. «Ma ci sono voluti due morti e ventitré feriti perché qualcuno decidesse che era ora di farlo».

Il disastro di Arè non è stato soltanto un incidente ferroviario: è stato un momento di verità per un territorio spesso dimenticato nelle priorità regionali. L’opera pubblica che oggi ridisegna la mobilità del Canavese nasce da una tragedia e da un lungo processo giudiziario, ma porta con sé il tentativo di immaginare un futuro in cui sicurezza e modernizzazione non siano il punto d’arrivo, ma di partenza.

Eppure, mentre la viabilità cambia, il dolore resta immobile. La storia privata della famiglia Madau lo dimostra. Maria Antonietta, parlando di suo fratello, racconta un uomo che aveva passato quarant’anni della propria vita sui treni, con dedizione assoluta. «Era una persona seria, leale, in gamba», dice. «E oggi non c’è più. E non c’è più neanche la speranza che la giustizia ci restituisca qualcosa».

Il processo non è ancora del tutto concluso. Le motivazioni della sentenza saranno depositate nei successivi 90 giorni. La Procura potrebbe decidere di ricorrere in appello. L’assicurazione del trasporto eccezionale è coinvolta come responsabile civile e la fase risarcitoria dovrà ancora essere definita nei dettagli.

Ma al di là dei tribunali, Arè di Caluso si trova davanti a una trasformazione irreversibile: la chiusura del passaggio a livello ha cambiato la geografia urbana, la circonvallazione ha ridisegnato i flussi di traffico, il sottopasso pedonale e ciclabile ha modificato la mobilità quotidiana. È il capitolo finale di una storia cominciata nel momento esatto in cui il treno 10027 ha sollevato il convoglio del tir e l’ha trascinato per decine di metri.

Nel silenzio che segue sempre le grandi opere pubbliche, rimane il ronzio dei ricordi. Per chi ha perso un familiare, non c’è circonvallazione che possa aggirare il dolore, non c’è sottopasso che possa passare sotto la memoria.

La sentenza del 2025 chiude un processo, ma non la storia. In quella frazione del Canavese, ogni volta che un treno attraverserà la ferrovia – oggi senza più incontrare un passaggio a livello – qualcuno penserà a quella notte. E alla sensazione, così diffusa, che la giustizia, almeno per una famiglia, non abbia mai trovato il suo binario.

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