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16 Settembre 2025 - 15:37
Il consigliere regionale Unia
In Consiglio regionale è esploso un tema che da mesi scorre sotterraneo come i filoni minerari che percorrono le Valli di Lanzo: il progetto di ricerca del cobalto a Punta Corna. È stato il consigliere del Movimento 5 Stelle Alberto Uniaa chiedere conto all’assessore Marco Gallo di cosa stia realmente accadendo sulle montagne tra Usseglio, Balme e Lemie, dove la società Strategic Minerals Italia Srl, controllata dell’australiana Altamin, ha ottenuto un permesso di ricerca valido fino al dicembre 2026. Gallo ha confermato l’imminente avvio dei carotaggi esplorativi: perforazioni con sonde elettriche fino a 200 metri di profondità, con l’obiettivo di verificare se i filoni già noti in superficie proseguano in profondità. Nessuno sbancamento, ha detto l’assessore, ma soltanto indagini mirate. Una rassicurazione che non basta a dissipare dubbi e diffidenze, tanto che Unia ha messo in guardia: “Una situazione di questo tipo va monitorata costantemente, con il totale coinvolgimento dei sindaci e della cittadinanza, onde evitare che le nostre montagne finiscano devastate da scavi e miniere che fanno il bene delle multinazionali, ma non dei territori”.
La vicenda ha radici lontane. Già nel 2018 la società aveva presentato al Ministero dell’Ambiente un Studio di Impatto Ambientale accompagnato da un programma di lavori preciso: 32 sondaggi distribuiti su sette piazzole, con profondità variabili tra i 150 e i 200 metri. Nel 2022 un provvedimento unico ambientale si è concluso con esito positivo, rinnovando il permesso. L’anno scorso è arrivata la richiesta di ampliamento dell’area interessata e un nuovo SIA. Tutto regolare sul piano formale, ma dietro le carte ufficiali resta una montagna che rischia di cambiare volto. L’area interessata dal permesso copre più di 14 chilometri quadrati e comprende zone ad alta vocazione turistica e ambientale, sentieri frequentati e habitat delicati. Non è un deserto industriale, ma un patrimonio naturale e culturale che oggi si trova a fare i conti con la geopolitica delle materie prime.
Il cobalto è considerato dall’Unione Europea una materia prima “critica”. Serve per produrre batterie, auto elettriche, dispositivi elettronici, magneti e leghe speciali. La domanda è destinata a crescere, e Bruxelles chiede agli Stati membri di ridurre la dipendenza da fornitori come Cina e Congo. In questo quadro Punta Corna diventa strategica: i rilievi superficiali hanno già rilevato la presenza di cobalto, nichel, rame e argento, con mineralizzazioni estese per circa 2,5 chilometri e fino a 340 metri di profondità. Non ci sono ancora risorse certificate secondo standard internazionali, ma il potenziale è evidente. Se i carotaggi confermassero i dati, il Piemonte potrebbe trovarsi con uno dei pochi giacimenti di cobalto attivi in Europa. Una prospettiva che spiega l’interesse della multinazionale, ma che accende anche le preoccupazioni delle comunità locali.
I Comuni hanno già iniziato a tutelarsi. Usseglio, ad esempio, ha imposto che un archeologo sia presente ogni giorno sui cantieri e che gli amministratori abbiano libero accesso alle aree di sondaggio. Si teme non solo l’impatto ambientale, ma anche la perdita di controllo sulle decisioni. Gli abitanti chiedono trasparenza, temono effetti su acqua e pascoli, e si domandano se i benefici economici ricadranno davvero sulle valli o se resteranno appannaggio delle multinazionali. Non va dimenticato che queste montagne hanno già conosciuto l’epoca delle miniere: scavi difficili, condizioni dure, guadagni per pochi e un’eredità di ferite ambientali ancora visibili. L’ombra di quella storia pesa, alimentando diffidenza verso chi promette “sviluppo sostenibile” a colpi di carotaggi.
Il dibattito è reso ancora più acceso dal contesto politico. Il Governo ha appena aggiornato il decreto miniere, semplificando i percorsi autorizzativi per i progetti che riguardano le materie prime critiche. Una mossa che rende più agevole l’azione delle società minerarie, ma che alimenta i timori di territori già fragili. La promessa è quella di contribuire all’indipendenza energetica e tecnologica dell’Europa, ma il timore è che a restare sul campo siano acqua compromessa, paesaggi violati e un turismo ridotto a ricordo.
Oggi Punta Corna resta un cantiere potenziale, in attesa delle prime perforazioni che diranno se sotto quelle rocce c’è davvero un tesoro sfruttabile. Ma il vero nodo non è soltanto geologico. È politico, sociale ed etico: fino a che punto si è disposti a sacrificare un territorio alpino per inseguire il sogno dell’indipendenza mineraria? Chi raccoglierà i benefici e chi pagherà i costi? Le Valli di Lanzo sono diventate il banco di prova di queste domande. Qui, più che altrove, si misura la distanza tra la retorica della sostenibilità e la concretezza dei progetti che, dietro la parola “transizione”, rischiano di trasformare la montagna in cava. E intanto la gente della valle guarda con sospetto gli elmetti e le trivelle che si preparano a salire, consapevole che la partita non riguarda solo il cobalto nascosto nelle viscere della montagna, ma il futuro stesso della comunità che quelle montagne le abita.
Si erano visti i cercatori d’oro nel Klondike, a fine Ottocento, che a colpi di piccone e sogni s’inerpicavano tra ghiacci e fiumi per strappare alla terra qualche pepita. Oggi, invece, i moderni pionieri indossano giacche a vento tecniche e arrivano da Melbourne con il power point in mano: non cercano pepite, ma cobalto, la materia prima della transizione ecologica, il metallo che serve alle batterie delle auto elettriche e ai proclami di Bruxelles. E dove mai potrebbero trovarlo? A Punta Corna, tra Usseglio e Balme, dove le nostre Valli di Lanzo improvvisamente si scoprono il nuovo Klondike.
Niente tende di fortuna, niente whisky e risse al saloon: qui ci sono sonde elettriche che scaveranno fino a 200 metri e un permesso di ricerca valido fino al 2026. Le multinazionali garantiscono che non ci sarà nessuno sbancamento, solo carotaggi. Come dire: non vi preoccupate, il vostro paesaggio resta intatto, ci limitiamo a forare un po’ qua e là. E intanto in Regione l’assessore rassicura e i consiglieri d’opposizione diffidano, con Alberto Unia che avverte: “Attenzione, non vorremmo che le nostre montagne fossero devastate dagli interessi delle multinazionali”.
Ma il vero spettacolo è nella narrazione. L’Europa, che predica di difendere il pianeta, oggi chiede di trivellarlo: per salvare l’ambiente bisogna bucarlo. Un paradosso irresistibile, degno di un western alpino: cowboys in giacca e cravatta che cercano il nuovo tesoro nelle rocce piemontesi. Gli abitanti guardano le trivelle come i cercatori d’oro guardavano i fiumi del Nord America: chi spera nel colpo di fortuna e chi teme di ritrovarsi con le mani vuote e la montagna svuotata.
E allora ecco le Valli di Lanzo, che da cartolina alpina diventano nuovo Klondike, tra proclami ministeriali, delibere regionali e sondaggi geologici. In palio non ci sono pepite da nascondere nel fazzoletto, ma un metallo blu che vale come l’oro nero. Cambiano i secoli, cambiano i protagonisti, ma resta la stessa febbre: la corsa a chi si prende il tesoro e chi resta con il buco.
Non c’è solo Punta Corna nel futuro minerario targato Strategic Minerals Italia Srl. La società con sede a Torino, controllata dal gruppo australiano Altamin e attraverso la controllata Energia Minerals Italia, muove i suoi interessi su più fronti della penisola. Una galassia di permessi, protocolli d’intesa e progetti che spaziano dal Lazio alla Lombardia, passando per la Liguria, e che negli ultimi mesi ha subito mutamenti importanti anche in Piemonte.
In Lazio il cuore della partita si gioca sul litio geotermico. Nei comuni di Campagnano di Roma e Nepi è attivo il permesso di ricerca “Campagnano”, prorogato fino al 2026, affiancato da altre istanze come “Galeria”, “Melazza”, “Cassia” e “Sacrofano”. Tutti titoli che rientrano nel cosiddetto Geothermal Lithium Project, su cui nel marzo 2024 è stato firmato un protocollo d’intesa con Iren per sperimentare la tecnologia di estrazione diretta (DLE). Sei licenze esplorative, in sostanza, che fanno del Lazio uno dei banchi di prova più ambiziosi per la corsa al litio in Italia. La prospettiva è chiara: non si tratta solo di trivelle e carotaggi, ma di una vera e propria scommessa industriale che guarda al mercato delle batterie e della transizione energetica.
Diverso il discorso in Lombardia, dove prende corpo il progetto Gorno, in Val Seriana. Qui si punta a riportare in attività una miniera storica di zinco, piombo e argento, oggi gestita dalla joint venture Vedra Metals Srl, costituita da Altamin con il fondo Appian. Non si parla più di semplici studi preliminari: nel 2024 e nel 2025 sono proseguiti campionamenti e studi di fattibilità industriale, con l’obiettivo di passare in tempi relativamente brevi a una fase di sviluppo minerario vera e propria. Un progetto che, se dovesse andare in porto, segnerebbe il ritorno dell’attività estrattiva pesante nelle valli bergamasche.
Più complessa la situazione in Liguria, dove Energia Minerals ha depositato richieste di permessi di ricerca per rame e minerali associati in aree che vanno da Sestri Levante a Né, da Casarza Ligure a Castiglione Chiavarese, fino a Maissana e Varese Ligure. Qui le carte parlano di studi d’incidenza e sopralluoghi tecnici, ma sul territorio il clima non è dei più sereni. I comitati locali e le associazioni ambientaliste hanno già fatto sentire la loro voce, denunciando i rischi di nuovi cantieri minerari in aree a forte vocazione turistica e naturalistica. La partita, dunque, è ancora tutta politica e sociale, oltre che tecnica.
E il Piemonte? Se Punta Corna resta il progetto simbolo e più contestato, vale la pena ricordare che il permesso parallelo “Balme” — sempre in Val di Lanzo — è stato oggetto di rinuncia da parte di Strategic Minerals. Lo certifica il Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte del febbraio 2025, chiudendo così un capitolo che, almeno sulla carta, si affiancava a quello di Punta Corna. Una scelta che dimostra quanto sia mutevole la strategia mineraria della società, pronta a concentrarsi sulle aree considerate più promettenti e a lasciare sul campo quelle giudicate meno redditizie o troppo complicate da gestire.
Il quadro complessivo, dunque, mostra un mosaico in rapido movimento. Litio nel Lazio, con tanto di alleanze industriali; zinco e piombo a Gorno, ormai a un passo dallo sviluppo; rame in Liguria, tra carte bollate e contestazioni; e in Piemonte la rinuncia a Balme che fa da contraltare alle tensioni ancora vive su Punta Corna. Una mappa che racconta non solo gli interessi di un’azienda, ma anche le contraddizioni della transizione energetica italiana: la corsa alle materie prime critiche, indispensabili per auto elettriche e pannelli solari, passa attraverso miniere, scavi e comunità locali che non sempre sono disposte ad accettarle.
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