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Striscione antifascista all'ingresso del cimitero ebraico... Provocazione?

“Viva l’Italia antifascista” davanti al cimitero ebraico di Ivrea. La Comunità parla di provocazione. Il sindaco Chiantore condanna, ma invita a distinguere l’identità ebraica dalla politica di Israele

Lo striscione antifascista, il cimitero ebraico e il dialogo mancato

Il cimitero ebraico di Ivrea

Succede a Ivrea, in via dei Mulini, dove le lapidi del cimitero ebraico di Ivrea raccontano storie antiche di identità, fede e appartenenza. Nei giorni scorsi, ignoti hanno posizionato uno striscione davanti all'ingresso, quasi ad impedirne l'accesso. Nessuna minaccia, nessun insulto. Solo quattro parole: “Viva l’Italia antifascista”. Poche lettere, eppure sufficienti per scatenare un caso. A notarlo per prima è stata la Comunità ebraica, che ha immediatamente inviato una lettera al sindaco Matteo Chiantore, interpretando quel gesto come una “provocazione”.

“Ed è evidente che lo è!”, commenta il sindaco, condannando senza esitazioni quanto accaduto ma cogliendo l'occasione per una riflessione più articolata.

Non può esimersi, considerando che Ivrea è una città che ha fatto della Resistenza un’identità fondante. La memoria partigiana, l’eredità olivettiana e bettazziana, la tensione civile che anima da mesi i presìdi per la pace: tutto parla di antifascismo come valore condiviso e non divisivo. Di lotta per la giustizia. Di dialogo. Di diritti umani.

E se è vero che lo striscione — affisso davanti al luogo più simbolico della memoria ebraica locale — rappresenta una forzatura, un’irruzione indebita in uno spazio che dovrebbe essere lasciato al rispetto e al silenzio, è anche vero che a Ivrea la coscienza civile non è mai andata in letargo. Ed è qui, in piazza Ferruccio Nazionale che, tutti i sabati, in tanti scendono in piazza e alzano la voce contro la catastrofe umanitaria in corso chiedendo la fine del massacro a Gaza e giustizia in Cisgiordania, per invocare una pace che non sia solo tregua tra le bombe.

Non contro il popolo ebraico, ma contro un governo — quello israeliano guidato da Benjamin Netanyahu — accusato da più parti, anche da autorevoli fonti internazionali, di aver oltrepassato il limite della guerra per spingersi nel territorio tragico del genocidio.

È in questo contesto che il sindaco Chiantore lancia un messaggio che suona come un invito. Un’esortazione alla Comunità ebraica.

“In una città dove l’antifascismo è un fondamento, come lo è la storia della comunità ebraica, se questa comunità esprimesse il proprio dissenso, come lo stanno facendo molte voci in Israele stesso, questo aiuterebbe il dialogo.”

Non un’accusa, ma un auspicio. Non una pretesa, ma il desiderio che la parola “ebraico” non venga ingiustamente schiacciata sull’operato del governo Netanyahu. E che la voce di chi porta sulle spalle secoli di persecuzioni, di esilio, di memoria viva della Shoah, possa unirsi a chi oggi grida contro la morte che dilaga a sud del confine israeliano.

“Lo striscione resta comunque una provocazione — sottolinea Chiantore — e ne prendo le distanze”. Il rispetto dei luoghi sacri, della memoria ebraica, della sacralità della morte non può e non deve essere violato, neppure con uno slogan apparentemente condivisibile.

La domanda è: può esistere oggi un ebraismo critico verso la politica di Tel Aviv senza sentirsi tradito? Può l’antifascismo — lo stesso che salvò molti ebrei durante il fascismo — diventare oggi terreno comune e non terreno di scontro?

A Ivrea, la città che tutti i sabati si raccoglie in piazza per dire “pace” mentre a Gaza si continua a morire sotto i bombardamenti, queste domande pesano.

Perché il dialogo, quello vero, può cominciare anche da un errore, purché ci sia qualcuno disposto ad ascoltare. Purché nessuno confonda la critica con l’odio, la condanna con l’identità, il dissenso con l’antisemitismo. E purché, in fondo a via dei Mulini, si continui a portare fiori e non rancori.

cimitero

Viaggio nella memoria e nella presenza della comunità ebraica della città di Camillo Olivetti

C’è una porta, in fondo a via Quattro Martiri, che da tempo non si apre più. Un portone anonimo, incassato tra muri segnati dal tempo. Oggi resta chiuso, in attesa di lavori rimandati di anno in anno. Eppure, è lì che continua a battere il cuore della comunità ebraica di Ivrea. Una presenza piccola, fragile forse, ma intensa, come la fiamma di una menorah (candelabro a sette bracci) che continua ad ardere, anche quando il vento soffia forte e intorno si fa buio. La si potrebbe dimenticare, questa comunità. O confondere con un ricordo lontano, scolorito dal tempo. E invece no. È ancora lì. 

Per raccontarla, bisogna tornare indietro nel tempo. Al 1547 quandoquattro fratelli ottengono il permesso ufficiale di risiedere a Ivrea, con una “condotta” che li protegge — almeno formalmente — e consente loro di esercitare il mestiere, spesso scomodo ma necessario, del prestito. È l’inizio di una presenza che attraverserà secoli di ghetti, di editti, di segregazione e libertà, di silenzio e di canto.

Nel 1725, i Savoia decidono "istituzionalizzano" il ghetto. Lo piazzano in via Quattro Martiri. Ed è lì che gli ebrei devono abitare, uscire solo di giorno, rientrare al tramonto. Un mondo chiuso, ma vitale. Di preghiera, di studio, di scambi. Dentro quelle case, nei cortili interni, si costruisce una comunità che resiste, che legge la Torah (testo sacro), che prepara la challah (pane ebraico) per lo Shabbat (sabato ebraico), che cresce figli e memoria.

Nel 1848, lo Statuto Albertino concede agli ebrei gli stessi diritti degli altri cittadini. Anche a Ivrea si aprono le porte, cadono i vincoli, la comunità fiorisce. Arrivano nuovi volti, si costruiscono legami. Tra il 1870 e il 1875, si costruisce la nuova sinagoga di Ivrea. Un tempio grande, ambizioso, decorato. Il progetto è affidato all’architetto Ignazio Girelli.

Nel Novecento la crescita rallenta, la comunità si assottiglia. Arrivano le leggi razziali. Arriva il fascismo. E se Ivrea riesce, in parte, a proteggere alcuni suoi cittadini ebrei grazie alla solidarietà di famiglie, religiosi, vicini, il colpo è durissimo. Dopo la guerra, il ritorno è difficile. Non tutti tornano. Non tutti hanno voglia di riprendere. Alcuni se ne vanno. Altri restano.

Nel 1931, la Legge Falco abolisce l’autonomia delle piccole comunità ebraiche: Ivrea viene inglobata in quella di Torino. Ufficialmente, la comunità ebraica di Ivrea non esiste più. Eppure continua a vivere. Non più nel grande tempio, oggi inagibile, chiuso da sei anni per infiltrazioni e degrado. Ma in un piccolo oratorio, discreto e nascosto, dove ancora si recitano preghiere, si accendono candele, si celebra la memoria.

Anche il cimitero parla. È in via dei Mulini, nel settore separato del cimitero cittadino. Lapidi con nomi ebraici si alternano ad altre, con nomi in italiano. Ci sono anche monumenti più imponenti, cappelle familiari. Tra i sepolti, anche soldati polacchi e russi ebrei, morti nell’ospedale di Ivrea durante la Prima guerra mondiale. Non erano eporediesi, ma qui trovarono la loro ultima casa.

Oggi la comunità conta poche decine di persone. Si dice siano meno di cinquanta. Alcuni vivono ancora in città, altri arrivano da fuori per le due principali feste ebraiche: Yom Kippur (il giorno dell’espiazione) e Rosh Hashanah (il capodanno ebraico). Qualcuno tiene viva la tradizione. Altri semplicemente custodiscono la memoria.

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