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Cronaca
30 Luglio 2025 - 14:40
Torino, l’anno dei cadaveri dimenticati: cinque corpi in decomposizione ritrovati in pochi mesi
Un anno nero per Torino e il suo hinterland, un anno che fa emergere con forza una verità scomoda: si può morire da soli, nel silenzio, e restare lì, dimenticati per giorni, settimane, persino mesi. Dal centro storico alle periferie degradate, dalle rive del Po alle sponde fangose di un lago, il 2025 ha consegnato alla cronaca cinque ritrovamenti drammatici, tutti segnati dallo stesso inquietante denominatore: corpi in avanzato stato di decomposizione, abbandonati nell’indifferenza.
L’ultimo caso in ordine di tempo è del 30 luglio, in via Maddalene 34, al confine tra Barriera di Milano e Regio Parco. Un uomo di circa sessant’anni è stato trovato morto su un divano-letto, in un appartamento popolare. Viveva lì da solo, seguito — almeno sulla carta — dai servizi sociali. A lanciare l’allarme è stata la badante, preoccupata per il silenzio prolungato. Quando le forze dell’ordine hanno forzato la porta, si sono trovate davanti una scena terribile: un corpo in putrefazione, un appartamento muto, nessun segno di violenza. Morte naturale? Malore? O qualcosa che non è stato ancora visto? L’autopsia proverà a dare risposte. Ma nel frattempo resta l’amarezza: nessuno si è accorto della sua assenza per giorni. Nessuno ha chiesto. Nessuno ha bussato.
Pochi giorni prima, il 22 luglio, un altro cadavere in stato di decomposizione era stato rinvenuto sulle rive del lago Castelpasserino, a Rivoli. Un passante, attirato da un odore nauseabondo, aveva allertato i carabinieri. Il corpo era semi-sepolto nel fango, irriconoscibile. Nessun documento. Nessuna denuncia di scomparsa. Solo un uomo morto, abbandonato alla terra e al tempo.
Il 6 luglio, il Po aveva restituito un altro cadavere, all’altezza della diga Michelotti, in corso Casale, a pochi passi da piazza Vittorio Veneto. Il corpo era incastrato tra i detriti della diga, gonfio, irriconoscibile, senza tracce evidenti di violenza. Anche in questo caso, nessuna identità, nessuna certezza. Solo ipotesi, domande, silenzi.
Ancora prima, il 3 luglio, la scena si era ripetuta nel degrado dell’ex sede INPS abbandonata di corso Giulio Cesare 290, nella periferia nord di Torino. Il cadavere di un uomo — forse nordafricano — è stato trovato da alcuni agenti in un angolo dello stabile, in avanzato stato di decomposizione, probabilmente morto da giorni, se non settimane. La zona, frequentata da senzatetto e persone in difficoltà, era già segnalata da tempo come un rifugio di disperazione. Ma nessuno aveva segnalato la scomparsa dell’uomo. Nessuno aveva cercato.
E infine, ancora più lontano nel tempo, ma non meno tragico, il 4 aprile, un corpo mummificato è stato rinvenuto in un cascinale in disuso in via Roveglia Ruffini, a Leinì, alle porte di Torino. Lì, secondo gli accertamenti dei medici legali, il corpo sarebbe rimasto per mesi, se non per anni. Anche in quel caso, identità ignota. Nessuna denuncia. Nessuna visita. Solo un cadavere e il silenzio che lo ha avvolto per troppo tempo.
Cinque corpi. Cinque storie che non conosciamo. Cinque vite spezzate nell’anonimato. Alcune forse legate a situazioni di disagio, povertà, malattia. Altre — come nel caso di via Maddalene — legate a circuiti di assistenza che avrebbero dovuto tutelare, proteggere, accorgersi. E invece no. Perché l’invisibilità non si cura con i moduli firmati, e nemmeno con i progetti annunciati. Si cura con la presenza, con il tempo, con l’umanità.
Torino, nel 2025, si è svegliata più volte con la notizia di un corpo scoperto troppo tardi. E ogni volta, dopo lo shock iniziale, tutto è tornato come prima. Le indagini proseguono, le autopsie si accumulano, i fascicoli si aprono. Ma la domanda resta: quanti altri stanno morendo da soli, proprio ora? Quanti altri sono chiusi in un appartamento, invisibili anche alla morte?
La risposta non è solo nei rapporti delle forze dell’ordine. La risposta è in noi. Nel modo in cui guardiamo — o non guardiamo — il nostro vicino di casa. Nel modo in cui ci ricordiamo — o dimentichiamo — che l’indifferenza è il primo passo verso l’abbandono. E che si può morire in mille modi, ma morire da soli, senza che nessuno se ne accorga, è la sconfitta di tutti.
Ci sono vite che scorrono accanto alle nostre e non ce ne accorgiamo. Vite che non fanno rumore, che non disturbano, che non chiedono nulla. Vite fatte di solitudine, di silenzi ingoiati, di giornate tutte uguali che iniziano e finiscono senza che nessuno le noti. Sono le vite degli invisibili. Gli anziani soli che guardano fuori dalla finestra per ore sperando che qualcuno suoni. I malati dimenticati in una casa popolare. I senzatetto che dormono sotto un portico, stretti in una coperta che non scalda nulla. I fragili, i dimenticati, quelli che non hanno più voce per chiedere aiuto. O forse non l’hanno mai avuta.
Ogni tanto un fatto di cronaca squarcia il velo dell’indifferenza: un cadavere scoperto dopo giorni in un appartamento, un odore che tradisce la morte, una porta che si apre troppo tardi. E allora ci indigniamo. Piangiamo. Ci domandiamo com’è possibile morire così, senza che nessuno se ne accorga. Ma la verità è che non è solo possibile. È normale. In una società che corre veloce e non guarda più in faccia nessuno, l’invisibilità è una condanna quotidiana.
Gli invisibili non sono fantasmi. Esistono. Sono il nostro vicino che non vediamo mai, l’uomo che mangia da solo sulla panchina, la donna che fissa il vuoto al mercato senza comprare nulla. Sono i nostri concittadini, i nostri parenti, i nostri ex colleghi, i nostri genitori domani, se non ci fermiamo oggi. Sono parte di noi. Ma li abbiamo esclusi dal nostro sguardo. Non fanno click, non generano profitto, non rientrano in nessun algoritmo. E quindi li lasciamo lì. A sopravvivere. A scomparire.
Eppure basterebbe poco. Una telefonata. Una visita. Un saluto. Un “come stai?” detto con sincerità. Non serve lo Stato, non serve il Comune, non serve un progetto europeo. Serve uno sguardo umano. Serve l’umiltà di riconoscere che il mondo non finisce al nostro portone. Che la solitudine non è una colpa. Che chiedere aiuto non è una debolezza. Che l’indifferenza uccide.
Gli invisibili muoiono due volte. La prima quando smettiamo di guardarli. La seconda quando nessuno va a cercarli. Non è solo la morte che fa notizia. È l’assenza di vita intorno a loro. È il vuoto che lasciamo prima che se ne vadano. È il rumore che non abbiamo sentito. E che ci esplode nelle orecchie quando è troppo tardi.
Facciamo in modo che nessuno sia più invisibile. Che ogni nome abbia un volto. Che ogni volto abbia una storia. E che ogni storia meriti di essere ascoltata. Perché nessuno dovrebbe morire da solo. E nessuno dovrebbe vivere dimenticato.
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