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30 Gennaio 2023 - 20:14
Il primo febbraio, è la giornata mondiale del velo, anche detta World Hijab Day.
Ad istituirla è stata la bangladese Nazma Khan nel 2013, con lo scopo di sensibilizzare la questione del velo islamico, ed invitare tutte le donne ad indossarlo, contro la discriminazione, per un giorno intero. Ma dopo quanto accade in Iran e a Kabul che senso questo indumento?
Oggi giorno, quando si parla di donne e Islam ci si domanda perché queste lo portino, se per caso non si sentano discriminate rispetto agli uomini o violate nella loro libertà di espressione. Personalmente ritengo il World Hijab Day, la giornata mondiale del velo islamico, una delle manifestazioni più spudorate di manipolazione culturale. Nel gergo volgare: il classico rovesciamento della frittata.
Dicono di rivendicare il diritto delle donne ad indossare il velo islamico senza persecuzioni e discriminazioni. Solo che nel mondo non ci sono casi di persecuzione di donne cui viene impedito di portare il velo, ma molti casi di donne che vengono percosse, anche a morte, perché non voglio indossare un simbolo di umiliazione, di subordinazione spietata ai voleri di maschi padroni, maneschi, la cui intolleranza viene giustificata da testi sacri branditi come alibi di un feroce dispotismo sessista. Se qualcuno impedisse con la forza di indossare il velo a donne che liberamente e consapevolmente vogliono farlo, la solidarietà alle donne che oggi manifestano dovrebbe essere incondizionata.
Ma la solidarietà, sinora negata, vergognosamente negata sia dai maschi che dalle femmine, dovrebbe essere rivolta alle donne che per aver voluto vestirsi con abiti depravati e sconci, jeans e camicette, sono state oppresse, massacrate dal branco dei maschi di casa, con la complicità servile di altre donne, madri e sorelle, i nuovi kapò di questa triste storia.
Dovunque è giunto il vento dell’oscurantismo integralista, le città che non conoscono distinzione tra legge dello Stato o dogmatismo religioso si sono riempite di donne coperte, così diverse dalle donne che negli anni Sessanta a Teheran e a Kabul si vestivano con libertà, gonne corte, costumi da bagno, cosmetici, come le loro sorelle di Roma e Parigi, Buenos Aires e Londra, Praga e Barcellona.
Ci sono donne che hanno riscoperto il valore del velo? Lo indossino come credono.
Ci sono donne che non vogliono entrare in un sudario e sono costrette a farlo? Dovremmo solidarizzare con loro, non diciamo scempiaggini sulla diversità multiculturale. Qualche volta, come nella Battaglia di Algeri, i veli delle donne sono state un simbolo di rivolta. Ma basta vedere un film bellissimo e straziante come Mustang per capire che inferno sia la vita quotidiana di cinque ragazze turche che sognano la libertà.
E poi quella di indossare un velo che copre parzialmente il volto è pratica attestata in Siria parecchi secoli prima dell’ascesa dell’Islam. Esisteva a Palmira, prima che dei criminali, si fossero accaniti contro i resti del tempio di Bel, dove hanno distrutto un gruppo scultoreo che raffigurava tre donne velate che risaliva al I secolo dopo Cristo.
Nel corso del terzo secolo Tertulliano, Padre della Chiesa, esprime apprezzamento per il comportamento delle donne pagane d’Arabia, “che si coprono il volto per intero”, e invita le donne cristiane a fare altrettanto in ossequio alla volontà di San Paolo.
L’apostolo dei Gentili sottolinea in effetti a più riprese la necessità che le donne cristiane portino il velo, come gesto simbolico atto a rimarcare l’inferiorità della donna in rapporto all’uomo, che a sua volta è inferiore a Cristo (Prima lettera ai Corinzi, 11, vv. 12-16). Basandosi su questa gerarchia voluta dal Creatore, Tertulliano prescrive una misura pratica: la donna deve coprirsi il capo perché “il velo è il suo giogo”.
Si cercherebbe invano un simile investimento simbolico all’interno del libro sacro dei mussulmani, che menziona il velo soltanto una volta (Sura 33, versetto 59) e come semplice misura pratica: si raccomanda alle “donne dei fedeli” di indossare il velo in presenza di estranei, perché questo «è il modo migliore per farsi riconoscere ed evitare di subire offese». Si narra infatti che a Medina, di notte, le donne dei fedeli venissero molestate da brutti ceffi che poi, fattosi giorno, sostenevano di averle scambiate per delle schiave.
Se quindi all’inizio, in contesto islamico, il velo non ha affatto la connotazione religiosa che possiede invece per il Cristianesimo, nelle civiltà musulmane del Mediterraneo diventa poi strumento pratico impiegato dalle donne per sottrarsi agli sguardi nelle occasioni in cui devono abbandonare la reclusione di casa per una qualunque necessità. Si tratta dunque di un mezzo di coercizione specificamente visuale. Pur non mostrando grande interesse per il velo, l’Islam promuove una cultura visuale opposta rispetto a quella dell’Occidente cristiano.
Per quest’ultimo, la vista è il senso più nobile perché permette di accedere, essendo per sua natura immateriale, a superiori realtà invisibili: le idee per Platone, il mistero dell’Eucaristia per i cristiani. Per l’Islam, invece, la vista induce in tentazione ed è ancella della concupiscenza. Le civiltà islamiche sono tradizionalmente organizzate in modo da limitare e regolare la vista: patio, mashrabiya, discrezione e, soprattutto, interdizione delle immagini, che invece il Cristianesimo, in linea di massima, incentiva. Oggigiorno, però, questa cultura visuale islamica che sfruttava il velo per rendere invisibile chi lo indossava è praticamente scomparsa.
Il velo è diventato un’immagine, inserito in una sorta di guerra di immagini e di guerra di immagine che l’Islam radicale conduce ormai contro il resto del mondo. Il paradosso è questo: le donne si mettono in mostra velate come le immagini dell’islam, religione senza immagini e che nascondeva le donne.
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