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Amor di patria

Ne traccia i confini il Sommo poeta nel canto IX dell’Inferno («si come Arli ove Rodano stagna / si come a Pola presso del Quarnaro / che Italia chiude e i suoi termini bagna». In una lettera del 16 aprile 1527, il Machia (chiamato così affettuosamente dal mio professore di Scienza politica Enzo Baldini) scrive all’amico Francesco Vettori: «amo la patria mia più che la mia anima». Prima e dopo l’Unità d’Italia si sono scritti fiumi di parole su questo sentimento, dalle allusioni del «Oh, mia patria sì bella e perduta» di Aristide Solera, librettista del Nabucco verdiano, al nostro «Edmondo dei languori» nel racconto «Dagli Appennini alle Ande». Istituita nel 1919, la festa per la fine della Prima guerra mondiale, nel 1922, poco dopo la marcia su Roma dei fascisti, divenne «Anniversario della Vittoria», con lo scopo di celebrare la potenza militare dell’Italia. All’indomani della seconda guerra mondiale, l’amor di patria ha avuto un momento di stanca, e – anzi - per un po’ è stato espunto dal lessico pubblico e politico. A causa dell’amor di patria che la declinante classe liberale e poi i fascisti erano andati sbandierando, due generazioni di italiani avevano patito le pene dell’inferno, prima sulle montagne al confine austriaco e poi con i tedeschi in casa. Gli italiani perciò, stufi della retorica tronfia e muscolare del fascismo, l’avevan fatta finita col regime e anche con il suo linguaggio. A partire dagli anni Sessanta del Novecento si facevano strada, pure in Italia, concetti come antimilitarismo e pacifismo che si saldavano con altre parole d’ordine come «distensione» e «convivenza pacifica».  Il grande ritorno ha coinciso, negli anni Novanta, con la crisi dei partiti della Costituente, nessuno escluso. La ripresa del concetto di amor di patria, si deve al presidente Carlo Azelio Ciampi, impegnato in un’opera di restituzione del portato costituzionale e repubblicano ad una parola dal significato terribilmente ambiguo proprio per l’esaltazione della vittoria, seppure a prezzo di 650 mila morti nelle trincee. Nel 2018, in occasione del 4 novembre, il presidente Sergio Mattarella ha sostenuto che «l’amor di Patria non coincide con l’estremismo nazionalista. L’amor di Patria viene da più lontano, dal Risorgimento. Un impegno di libertà, per affrancarsi dal dominio imposto con la forza: allora da Stati stranieri. Dopo la Grande Guerra fu una parte politica a comprimere la libertà di tutti. In questo risiede il profondo legame tra Risorgimento e Resistenza». Allo sforzo chiarificatore, quest’anno, sembra che le alte cariche dello Stato abbiano abdicato in favore della «retorica delle ricorrenze», tanto più ambigua quanto più cara alle destre nostrane. Forse, proprio per evitare che le destre nazionaliste e xenofobe aggiungessero una nuova freccia al proprio arco, a differenza del ministro della Difesa, il pidino Lorenzo Guerini, il presidente Mattarella ha richiamato «quattro importanti anniversari: 160 anni dell’Unità d’Italia, 150 anni di Roma Capitale, 100 anni del trasferimento al Vittoriano della salma del Soldato Ignoto, 75 anni di Repubblica». Ipse dixit.
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