Partigiani sfilano in piazza Vittorio Veneto a Torino
Risale agli anni Settanta del secolo scorso e inneggia al Fronte di resistenza patriottico cileno che si batteva, nella lontana repubblica andina, contro la giunta militare insediatasi dopo il golpe del generale Augusto Pinochet (11 settembre 1973). Benché un po’ scolorita, la scritta continua a spiccare sulla facciata di un vecchio edificio nel centro di Settimo Torinese, in via Franklin Delano Roosevelt. La falce e il martello con la sigla Fgci non lasciano spazio a incertezze sui suoi autori, attivisti di quella Federazione giovanile comunista che si scioglierà nel dicembre 1990, anticipando di alcune settimane la fine del Pci, il partito di cui costituiva un’importante appendice. Ben pochi si meravigliavano, all’epoca, per gli arditi raffronti fra la lotta di liberazione nell’Italia invasa dai tedeschi e quella nel Cile del «Régimen militar». Coloro che desiderano rinverdire la propria memoria possono proficuamente sfogliare la raccolta del periodico allora curato dal Frente del pueblo oppure vedere le registrazioni dello spettacolo «Guerra di popolo in Cile», interpretato da Dario Fo, Franca Rame e altri. Con tutta evidenza, l’accostamento fra la situazione italiana del 1943-45 e quella cilena di trent’anni più tardi è anacronistico e infondato. Nulla lega fenomeni diversissimi, originatisi in aree geografiche e in contesti storici, sociali e politici assolutamente non comparabili. Altrettanto improvvido dal punto di vista storico appare, oggi, il paragone fra la resistenza degli italiani e quella degli ucraini. Irresistibile ai fini della comunicazione politica, la scaltrezza di riferirsi al passato secondo schemi e categorie che non gli sono pertinenti incombe come un’autentica bestia nera nel discorso pubblico. Respingere i parallelismi privi di significato non equivale, ovviamente, a delegittimare la resistenza degli ucraini, aggrediti in maniera selvaggia dall’esercito russo. Una questione politica, non storica Forse, però, il tema va analizzato in termini diversi. La virulenza delle polemiche che da settimane agitano soprattutto certi ambienti della sinistra italiana rivela, infatti, che la «vexata quæstio» non è di natura storica ma politica. In altre parole, che cosa rispondere a un popolo assalito e martoriato che invoca aiuto? È ragionevole suggerirgli la resa incondizionata per non prolungare le sue sofferenze? Bisogna soccombere a un despota minaccioso, convinto che la guerra sia un utile strumento di risoluzione delle controversie internazionali? In tempi niente affatto remoti, la sinistra estrema o radicale – volendo ricorrere ai parametri politici dei nostri tempi – ha appoggiato i tupamaros dell’Uruguay, i khomeinisti dell’Iran, i guerriglieri del Mozambico e dell’Angola, i montoneros dell’Argentina, i sandinisti del Nicaragua, gli zapatisti del Chiapas e via discorrendo, schierandosi ogni volta per l’autodeterminazione dei popoli. Agli ucraini, invece, nega il diritto di decidere il proprio destino e di resistere all’invasore. Forse perché, come alcuni malignamente sostengono, la lotta degli ucraini non rientra nei rigidi schemi della Terza internazionale (il Comintern o Internazionale comunista) di sovietica memoria? Intervistato dal quotidiano «la Repubblica», lo scrittore ed ex magistrato Gianrico Carofiglio ha ribadito che le belle e poco impegnative dichiarazioni di solidarietà non servono a nulla. Limitarsi a sostenere che bisogna intensificare l’impegno per la pace, sorvolando su come sia realisticamente possibile, equivale ad asserire che occorre essere buoni oppure che si deve voler bene alla mamma. La pace: sì, ma quale? Tutti desideriamo la pace. Anche Vladimir Putin. Ma di quale pace si tratta? Nella biografia e «laudatio» funebre del suocero Gneo Giulio Agricola, Publio Cornelio Tacito riporta le parole di Calgaco, il capo dei caledoni, fieri oppositori della conquista romana: «Chiamano impero, con falsi nomi, depredare, massacrare e rapinare; dove fanno il deserto parlano di pace». Tutto ciò, ben inteso, non esime dalla necessità di negoziare. Ma negoziare non significa piegarsi alla logica del più forte, cioè di chi manifesta una scellerata aggressività, come l’autocrate Putin che si sta macchiando dei peggiori crimini di guerra. Nel 1938 Francia e Regno Unito cedettero alle pretese di Adolf Hitler sui Sudeti, dove in prevalenza vivevano popolazioni di lingua tedesca. Le democrazie occidentali furono allora contagiate dalla politica dell’«appeasement» o acquiescenza, illudendosi di placare le mire espansionistiche del Führer. Dagli italiani, largamente ostili a un nuovo conflitto in Europa, Benito Mussolini fu osannato in quanto «salvatore della pace». Con lungimiranza tristemente profetica, invece, Winston Churchill commentò: «Potevano scegliere tra disonore e guerra. Hanno scelto il disonore, ma avranno la guerra». «Uomini d’Europa, vegliate» Lo scorso 2 aprile, allo scopo di riflettere sulla tragedia ucraina, nella basilica milanese di San Carlo al Corso è stata riproposta la «Salmodia della speranza», il testo teatrale che padre David Maria Turoldo scrisse per il ventesimo anniversario della resistenza italiana. «Dalle selve di tutta l’Europa – esordisce il coro – si è levato un gracidare di corvi a stormo. Gridi di corvi a stormo fanno vibrare di bianco il silenzio mortale delle strade, il silenzio delle case vuote, il silenzio impaurito delle campane. Talloni d’acciaio a milioni continueranno a ritmare il notturno stupore delle capitali morte». E ancora: «Uomini d’Europa, vegliate. Vegliate per non cadere in tentazione». «Questo messaggio – si legge nel portale Internet della Chiesa ambrosiana – risuona ancor più universale e profetico, per la tragedia del popolo ucraino martoriato dai “fratelli” russi».
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