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12 Dicembre 2023 - 19:31
Una tragedia collettiva, un trauma di cui in tanti ancora oggi si rifiutano di parlare. L’alluvione che colpì la Val Grande di Lanzo il 23 e 24 settembre del 1993 ha modificato il territorio e la percezione di chi lo abita. L’evento fu disastroso, e arrivò persino in Parlamento: il web conserva ancora interrogazioni e documenti che vennero discussi ai piani alti dell’amministrazione pubblica. Noi ci siamo fatti raccontare quei fatti da un testimone d’eccezione.
Si chiama Edoardo Chiariglione, ma sul territorio lo conoscono tutti come Bröwa. E lo conoscono perché da qualche anno a questa parte Edoardo scrive libri sulla natura, sul suo territorio, sui suoi abitanti. Originario di Chialamberto, Edoardo all’epoca aveva solo 25 anni.
“Non avevo mai visto il fiume in quelle condizioni” ci dice ricordando lo Stura di Lanzo mentre in macchina saliamo da Chialamberto verso Forno Alpi Graie, frazione di Groscavallo che fu colpita pesantemente dall’alluvione.
I soccorsi
“Mio zio era proprietario dell’albergo Ristorante Savoia, sempre a Forno. Andando verso la frazione vidi una macchina che scendeva e che a un certo punto andava fuori strada. Non c’era nessuno sopra, ma c’erano trenta centimetri d’acqua che la stavano portando via”.
Era il primo pomeriggio del 23 settembre. Edoardo stava iniziando a capire che quel fiume così ingrossato e quell’acqua che iniziava a scendere dalla Provinciale che collega i paesi della Val Grande non era un buon segno.
Decise comunque di salire verso Forno Alpi Graie e di raggiungere l’albergo dello zio. “Lì incontrai mia zia e mia nonna, e dissi loro: prendete quello che vi serve e andiamocene via, perché capivo che c’era qualcosa che non andava”.
Archivio RaiTre, Tgr Piemonte
Ma abbandonare una casa è complicato, soprattutto per un anziano. A un certo punto la pioggia si fece sempre più insistente, “e - spiega Edoardo - una grande bomba d’acqua si riversò sulla provinciale: la strada si trasformò in un fiume”.
L’albergo Savoia diventò un’isola in mezzo a un mare di acqua mista a detriti e fango: “C’era acqua da tutte le parti. Non potevamo più andare via”. Anzi, forse lui e un altro paio di giovani che si trovavano lì avrebbero potuto: due sgambate nell’acqua alta e giù dalla valle attraverso la provinciale.
“Ma mi sembrava una fuga vigliacca: avevamo lì con noi mia nonna e tutte quelle persone anziane che stavano all’albergo”. E così Edoardo decise di restare. A fare cosa? Forse niente, forse solo a pregare e a farsi forza l’uno con l’altro.
“Il rumore era impressionante: a un metro di distanza bisognava urlare per capirsi, e sentivamo delle vibrazioni incredibili”. L’energia elettrica mancò quasi subito, “ma l’unica cosa che non ci ha abbandonato era il telefono: riuscimmo così a metterci in contatto con le persone che c’erano a valle: riuscii a parlare con mio padre e la mia famiglia”.
Alla fine i soccorsi arrivarono, ma nessuno riuscì a tirare fuori dalla struttura Edoardo e gli altri ospiti dell’albergo. L’elicottero riuscì a recuperare i margari che stavano a monte del paese, che avevano trovato rifugio su un tetto.
“Noi invece non eravamo recuperabili - racconta Edoardo -. Eravamo dentro l’albergo e nessuno riuscì a calare una fune: ci sentimmo abbandonati a noi stessi. Ecco, in quella situazione ci sentivamo così piccoli di fronte alla natura”.
Eppure, riflette oggi Edoardo, nessuno si fece prendere dal panico. Impensabile per noi che ascoltiamo questa storia: ci immaginiamo un albergo circondato dall’acqua che sale, sale, sale, sale, e assieme all’acqua sale anche la paura di chi sta dentro l’albergo. Invece no.
“Non c’è mai stato veramente un attimo di terrore: c’è stata una presa di coscienza dignitosa di fronte a una situazione che poteva essere la fine o poteva non esserlo. Io ho ripreso a fumare - sorride Edoardo - dopo aver smesso da otto mesi; vabbè, mi sono detto: tanto vale morire con la sigaretta in bocca!”.
Gli anziani cercavano di farsi forza, di coltivare la speranza: intanto le ore passavano e la pioggia, fortunatamente, diminuiva sempre di più.
Ci siamo fatti accompagnare da Edoardo Chiariglione a Chialamberto e Forno Alpi Graie per farci raccontare l'evento
“I soccorritori riuscirono a fare una specie di passerella con delle tavole, e ci permisero di uscire dall’albergo: ricordo che abbiamo fatto sedere le signore anziane su delle sedie e le abbiamo prese e trasportate come fossero su una barella”.
Con Edoardo siamo andati di fronte all’albergo Savoia. Una volta arrivati il suo sguardo è cambiato. Edoardo si ricorda del livello a cui era arrivata l’acqua: tre metri, ci sono ancora i segni sulle mura dell’albergo.
L’acqua arrivò ai balconi, alle finestre, si intrufolò nelle case e fece scoppiare le tapparelle dal di dentro. Una catastrofe, che per fortuna non lasciò vittime dietro di sé ma che ha segnato la storia di un intero territorio.
“Era difficile anche prendere contromisure: l’evento si svolse con una velocità incredibile” ci racconta oggi Edoardo. Fu un trauma: “C’è stata una voglia da parte della popolazione di rimuovere la vicenda, e lo capisco: per molti quell’episodio ha voluto dire la distruzione di una vita intera”.
L'acqua raggiunse livelli altissimi
Lo stesso albergo Savoia era stato ristrutturato da appena un anno. Su quelle mura erano stati spesi soldi, energie, tempo. Tutto devastato dall’acqua. Eppure quella catastrofe servì alle persone anche ad unirsi, a rimboccarsi le maniche di fronte alla tragedia.
“Ho visto persone che non si parlavano da anni lavorare assieme a spalare fango senza rivolgersi la parola: ho visto una voglia di aiutarsi nella necessità, a prescindere da chi sia quello che vai ad aiutare, anche se quella persona è qualcuno con cui non hai voglia di comunicare” dice Edoardo.
L’esperienza è stata talmente travolgente e significativa che Edoardo ha provato anche a scriverci un romanzo. Eppure lui, di solito così prolifico e capace di scrivere anche due libri l’anno, di fronte al racconto di questo evento s’è fermato. Qualcosa non funzionava, qualcosa gli impediva di continuare.
“Ho scritto un centinaio di pagine, poi sono arrivato a un certo punto in cui mi sembrava di entrare troppo nell’intimità. Questo evento lo posso descrivere senza ingigantire nulla, mi bastava chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare”, epperò Edoardo s’è reso conto che “quello non fu un evento profondo solo per me: mi sembrava di andare a toccare i nervi scoperti del potenziale lettore che avrebbe preso in mano il romanzo. Devo riuscire a trovare un modo per elaborare quegli eventi in maniera più distaccata”.
Anche perché quello fu un vero e proprio trauma collettivo: “Non è stata una cosa che ho vissuto solo io, ma l’ha vissuta l’intera collettività. Mi sono sentito frenato, mi sembrava di andare nel privato degli altri, e non mi sembrava giusto”.
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