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04 Dicembre 2025 - 17:41
C’è una vecchia liturgia abilista che resiste nel tempo, immune a ogni tentativo di innovazione: la divisione tra disabili che meritano e disabili che disturbano. Tra chi conquista la rispettabilità attraverso l’infallibilità e chi osa raccontarsi senza chiedere scusa. È precisamente questa distinzione, stantia e rassicurante, a fare da architrave all’articolo “Se la disabilità diventa una professione (misurata in follower)”, pubblicato da Vita e firmato da Giovanni Ferrero — una rivista che si definisce “dell’innovazione sociale”, ma che in questo caso sembra guardare soprattutto allo specchietto retrovisore.
Il mito della perfezione come lasciapassare
Ferrero, direttore della Cpd —Consulta per le Persone in Difficoltà — di Torino, costruisce la sua argomentazione partendo da una figura paterna trasformata nel simbolo di una generazione che avrebbe dovuto “sudare il doppio”, “mai un ritardo”, “mai un giorno di malattia”, “mai un passo falso”
Una generazione che, per esistere nello spazio pubblico, doveva prima cancellare ogni traccia della propria condizione, poi qualificarsi come professionista impeccabile.
Questa non è innovazione: è il vecchio mito dell’eroe tragico, l’idea che la disabilità debba essere redenta attraverso performance superiori alla media. Nessun’altra categoria sociale viene educata a conquistarsi il rispetto attraverso l’annullamento di sé: accade solo alle persone con disabilità, che vengono trasformate in monumenti alla resistenza, mai soggetti politici.
La colpa di esistere pubblicamente da disabili
La vera accusa dell’articolo, ripetuta con ostinazione, è rivolta a chi oggi prende parola “come disabile”, a chi racconta la propria vita, a chi partecipa ai Disability Pride, a chi fa politica identitaria sui social. Ferrero liquida queste voci come “semplicemente disabili che hanno trasformato la loro disabilità in visibilità”.
Ma raccontare la disabilità non è un vezzo narcisistico: è un linguaggio politico, esattamente come lo è nel femminismo, nei movimenti LGBTQ+, nelle lotte antirazziste. Sembra invece diventare sospetto solo quando la narrazione riguarda la disabilità — come se questa identità dovesse rimanere privata, composta, gratificante per l’ascoltatore non disabile.
La delegittimazione economica: il lavoro va bene solo se gratuito
Tra i passaggi più rivelatori, Ferrero stigmatizza chi, invitato a parlare, osa chiedere un compenso: il campanello d’allarme dell’abilismo rispettabile. È troppo per lui che una persona con disabilità consideri il proprio tempo come lavoro, la propria voce come competenza.
Eppure lo stesso autore celebra la generazione che “non chiedeva un compenso” e si “spendeva per dovere civile” — idealizzando ciò che oggi chiameremmo semplicemente sfruttamento. Questo modello, travestito da moralità, pretende che le persone con disabilità partecipino alla vita pubblica senza mai essere retribuite, come se il loro contributo valesse meno o, peggio ancora, dovesse essere restituito alla società come atto di gratitudine.
Il pietismo come arma rivoltata contro i diretti interessati
Ferrero accusa il pubblico di “pietismo” perché applaude i racconti identitari, ma poi usa lo stesso concetto per condannare proprio chi prova a uscire dalla cornice pietistica. Nell’articolo tutto diventa sospetto: – chi racconta la propria storia, – chi prende parola, – chi si mostra, – chi attraversa l’Italia in carrozzina, – chi canta o performa, – chi fa politica.
È il paradosso fondamentale dell’abilismo interiorizzato: le persone con disabilità devono emanciparsi, ma senza spostare l’aria. Devono parlare, ma non troppo forte. Devono essere presenti, ma non troppo presenti. Devono esistere, ma senza chiedere nulla.
L’invisibile che l’articolo non vede
Nell’articolo non c’è traccia della complessità reale della disabilità:
Queste vite — le più comuni, le più diffuse, le più politicamente rilevanti — non compaiono mai. Come se il valore di una persona con disabilità fosse ancora misurabile solo in base alla capacità di replicare la rispettabilità borghese del Novecento.
Competenza o conformità?
L’articolo si chiude con un’esortazione: “Nulla su di noi senza di noi, con competenza”.
Ma qui la parola “competenza” non indica la capacità, indica l’obbedienza. Chi decide quali competenze siano valide? Quali narrazioni siano legittime? Quali corpi siano abbastanza addomesticati per entrare nello spazio pubblico?
Se l’autorità di questa definizione è la stessa che giudica indecoroso il compenso e sospetto il racconto di sé, allora non si tratta di competenza: si tratta di conformità.
La disabilità non ha bisogno di essere resa rispettabile. Non ha bisogno di essere ripulita dalle sue forme narrative contemporanee. Ha bisogno di un ecosistema politico e culturale che riconosca la pluralità delle vite reali, non solo quelle che rientrano nel curriculum dell’eroismo.
E ha bisogno, soprattutto, di una cosa semplice e non negoziabile:
“Nulla su di noi senza di noi” non è un espediente retorico né uno slogan da aggiornare a piacimento. È il motto storico del movimento internazionale delle persone con disabilità, utilizzato per la prima volta a livello internazionale da Ron Chandran-Dudley e ripreso da Adolf D. Ratzka, per definire la filosofia e la storia del movimento per i diritti delle persone con disabilità. Un motto che non distingue tra disabili “con competenza” e disabili senza pedigree, come vorrebbe, invece, Giovanni Ferrero: ciò che viviamo sulla nostra pelle ci dà la competenza necessaria per definirci e rappresentarci.
Come ricordava Ratzka, «Dobbiamo spezzare il monopolio dei professionisti non disabili che parlano a nome nostro». Ed è per questo che — oggi come allora — resta l’unico principio non negoziabile: nulla su di noi senza di noi. Punto. Senza postille, senza “miglioramenti”, senza chi pretende di dirci come dovremmo rappresentarci.
Fonte: VITA.it
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