Alla voce «capramarito», il Vocabolario Treccani spiega: «Nome con cui s’indicavano, nel Medioevo e dopo, lo schiamazzo popolare e il pubblico motteggio che accompagnavano le seconde nozze, usanza nota in Italia sotto varî nomi regionali: “scampanata” o “scampanacciata” (Toscana), “scornata” (Friuli), “ciambelleria” (Napoli), “batterella” (Verona), ecc.». I francesi parlavano di «charivari», i piemontesi di «ciavremari», «ciarivarì» o «ciabra». Nella sua Storia del riso e della derisione, lo storico Georges Minois argomenta che lo «charivari» consisteva in un «rumoroso assembramento dei membri della comunità rurale, molti dei quali erano travestititi, che facevano chiasso con utensili da cucina e si piazzavano davanti alla dimora di uno dei parrocchiani allontanatosi dal gruppo per via di una condotta giudicata reprensibile». Occorre sapere che la «ciabra» era inscenata non solo per le seconde nozze, specie se fra i coniugi sussisteva una notevole differenza di età, ma anche se un uomo si faceva picchiare dalla moglie oppure se una donna si comportava un po’ troppo liberamente, se un marito correva abitualmente la cavallina e così via. «L’agente sanzionatore – commenta Minois – era il riso, derisorio, rumoroso, aggressivo». Per quanto concerne Settimo Torinese, il capo XLIII degli statuti medioevali imponeva alle donne che si accasavano fuori del paese di versare sei denari per ogni lira di dote alla locale confraternita dello Spirito Santo. La norma non era né iniqua né vessatoria. Ogni giovane donna che abbandonava il paese, infatti, arrecava un danno alla comunità, privandola di una nuova famiglia, in particolare dei futuri figli, il cui contributo era indispensabile alla prosperità e alla difesa del borgo. Si trattava, in sostanza, di una misura di salvaguardia degli interessi collettivi. Non a caso, i proventi della tassa andavano alla confraternita dello Spirito Santo, un’istituzione laica che aveva finalità di mutuo soccorso e di assistenza ai poveri. Ma c’è di più. Pagato il balzello, la sposa era libera di andarsene dal territorio: chiunque avesse cercato di fermarla incorreva in una multa di cinque soldi. In tal modo venivano proibite le gazzarre che i giovani inscenavano in occasione delle nozze di una donna fuori paese, suonando le campane a morto, sbarrando le strade, sbeffeggiando lo sposo e pretendendo una sorta di pedaggio dalla coppia. In altri termini, si vietavano le «ciabre», che talvolta finivano per tramutarsi in animate zuffe. Sembra, infatti, che lo «charivari» – con tanto di paioli, tamburelli e corni – potesse durare per un’intera settimana davanti alla casa delle vittime, finché queste non acconsentivano a pagare un’ammenda. Nella regione subalpina, benché ripetutamente proibite dagli ordinamenti comunali e dalle autorità ecclesiastiche, in quanto lesive della libertà di matrimonio, le «ciabre» ebbero luogo sino a tempi tutt’altro che remoti. Nei suoi appunti di storia locale, il teologo Domenico Caccia riferisce un episodio di cui furono protagonisti due ottantenni che avevano contratto matrimonio nel Chivassese. La gente – ricorda Caccia – attese gli sposi, «a notte inoltrata, alla stazione ferroviaria, con la banda musicale, mentre le donne settimesi organizzavano una singolare fiaccolata di canapuli accesi», posti in ceste di vimini, preventivamente «ammollate in acqua e issate su alte pertiche». I canapuli («canaveuj», in piemontese) sono i fusti lignei della canapa, privati delle fibre; di solito venivano usati come combustibile.
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