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28 Novembre 2025 - 11:54
Hong Kong conta i morti, ma i cantieri restano gli stessi: a Wang Fuk Court la sicurezza era un’illusione
C’è un’immagine che gli abitanti di Wang Fuk Court continuano a rivivere con la lucidità tipica degli shock collettivi: le bande verdi della rete da cantiere che, con il buio, iniziano a friggere, poi a incresparsi, a brillare come un filo elettrico sovraccarico, finché il sibilo del calore si trasforma in un rombo e la fiamma risale la facciata con la velocità di un ascensore impazzito. Nel giro di pochi minuti, l’intero complesso residenziale composto da otto torri nel distretto di Tai Po, nel Nord dei Nuovi Territori di Hong Kong, diventa un corridoio verticale di buio e fumo, dove i percorsi di fuga sono compromessi dai lavori di ristrutturazione e la visibilità si riduce a una sfocatura di luci arancioni oltre le porte chiuse.
L’incendio, scoppiato nel primo pomeriggio di mercoledì 26 novembre 2025, lascia una contabilità che non ha ancora trovato un numero definitivo: almeno 128 morti, 79 feriti, oltre 200 persone di cui le autorità dichiarano di “non conoscere ancora con certezza identità o stato” dopo la fine delle operazioni di soccorso. La rete di allarme? Secondo molti residenti, non ha mai suonato. L’evacuazione? In decine di piani è cominciata bussando alle porte, chiamando a voce i vicini.
La sequenza ufficiale diffusa dalle autorità locali registra la prima chiamata ai soccorsi alle 14:51. Passano undici minuti e il rogo viene alzato ad allarme n. 3; alle 15:34 è già n. 4, e alle 18:22 diventa n. 5, il massimo livello previsto per la città. Il fuoco viene “circondato” solo alle 21:31 del giorno successivo, portato “sotto controllo” alle 03:15 di venerdì 28 e dichiarato “largamente estinto” alle 10:18. Tempi che restituiscono la violenza con cui le fiamme si sono propagate lungo la facciata esterna: un fronte partito quasi certamente dai piani bassi della torre in ristrutturazione e arrampicatosi su ponteggi di bambù, reti protettive e pannelli in polistirene utilizzati per sigillare temporaneamente finestre e cavedi. L’architettura del cantiere ha creato un effetto camino che ha trasformato il rivestimento esterno in una canalizzazione perfetta per il fuoco, con temperature tali da frantumare vetri, invadere gli appartamenti, rendere impossibile distinguere cosa fosse ancora abitabile e cosa fosse già collassato.
I vigili del fuoco segnalano focolai residui, ritorni di fiamma, quartieri ciechi dove la combustione ha continuato a respirare sotto strati di fuliggine. Undici pompieri risultano feriti e un vigile con nove anni di servizio muore nel tentativo di raggiungere alcuni residenti rimasti intrappolati ai piani intermedi. Il vano scala dove si muoveva aveva accumulato un’inerzia termica tale da trasformarsi in un pozzo di calore senza scampo. È nei racconti degli abitanti che il disastro assume proporzioni ancora più spaventose: scale dove il fumo ha iniziato a filtrare dalle fessure mentre gli allarmi erano muti; casse d’aria in cui si cercava un respiro aprendo gli sportelli dei contatori; ballatoi dove anziani e famiglie hanno atteso che qualcuno bussasse alla porta per dire che bisognava uscire, o che era troppo tardi per uscire. Le testimonianze convergono su un punto: le sirene antincendio in molti blocchi non erano attive, probabilmente disattivate per lavori o compromesse da guasti non rilevati.

A confermare la gravità delle segnalazioni è arrivata la comunicazione del Segretario alla Sicurezza di Hong Kong, Chris Tang, che indica “malfunzionamenti” in più torri del complesso. La polizia apre un’inchiesta e nelle prime 48 ore effettua tre arresti collegati alla ditta di ristrutturazione Prestige Construction/Engineering, con le ipotesi di omicidio colposo e grave negligenza. Il primo esame tecnico diffuso dalle autorità sostiene che la rete da cantiere abbia rispettato gli standard di resistenza al fuoco, mentre i pannelli in polistirene utilizzati come chiusura temporanea risultano avere avuto un ruolo decisivo nella propagazione, in quanto altamente infiammabili. Se confermato, questo sposterebbe l’attenzione dalla tradizionale accusa ai ponteggi di bambù verso la filiera dei materiali utilizzati durante la ristrutturazione.
I numeri descrivono la dimensione di una tragedia generazionale: 128 morti ufficiali, 79 feriti presi in carico dagli ospedali pubblici, circa 200 persone ancora senza identità certa, sette torri interessate dalla propagazione del fuoco e un rione che per due giorni ha assistito a scene che ricordano storicamente il rogo del deposito Wing On del 1948. Le bacheche dei centri di raccolta mostrano fogli con nomi scritti a matita, aggiornati ogni ora. Tra le vittime e i dispersi compaiono lavoratrici domestiche di Filippine e Indonesia, una presenza radicata in città. Le rappresentanze consolari hanno inviato personale per affiancare le famiglie nelle identificazioni.
La gestione dell’emergenza passa per il Centro di Monitoraggio e Supporto, attivato dal Chief Executive John Lee. La Primary Healthcare Commission apre stazioni mediche nei rifugi temporanei, la linea 18111 viene rafforzata con psicologi e mediatori, la Hong Kong Monetary Authority chiede flessibilità alle banche per documenti, conti e accesso alla liquidità. Strade chiuse, bus deviati, scuole sospese in parte del distretto, mentre migliaia di residenti dormono in centri commerciali, seduti su sedie di plastica con una borsa di documenti stretta al petto.
Il punto centrale resta la ricostruzione delle responsabilità: materiali scelti, modalità di installazione, assenza di sistemi antincendio attivi durante i lavori, mancata formazione dei residenti, procedure di evacuazione inesistenti. Hong Kong attraversa un ciclo massiccio di ristrutturazioni: molti edifici costruiti tra gli anni Settanta e Novanta sono ora nei cantieri. Il modello di intervenire senza traslocare gli abitanti, però, richiede standard di sicurezza più severi di quelli adottati finora. Il rogo di Wang Fuk Court diventa così il caso di studio che costringe la città a interrogarsi sul modo in cui gestisce la sovrapposizione tra vita quotidiana e lavoro edilizio.
Nelle ultime ore, le autorità annunciano una task force interdipartimentale, ispezioni straordinarie nei cantieri residenziali, e l’ipotesi — non più tabù — di limitare la presenza del bambù in contesti ad alto rischio, sostituendolo con impalcature metalliche. Per i sopravvissuti, però, l’urgenza resta tornare a una normalità che nessuna riforma potrà restituire rapidamente: nuove case, documenti da ricostruire, traumi che dureranno anni. La domanda che si pone ora una città attonita è la più semplice e la più difficile: quando la prossima fiamma cercherà la strada più rapida verso l’alto, troverà ancora reti, bambù e polistirene, o incontrerà finalmente barriere, sensori e protocolli in grado di fermarla?
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