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Hong Kong in cenere: sette torri bruciano, un’intera città chiede verità

Wang Fuk Court, 83 morti e 279 dispersi: materiali non ignifughi, impalcature di bambù e controlli mancati al centro dell’inchiesta più grave degli ultimi decenni

Hong Kong in cenere: sette torri bruciano, un’intera città chiede verità

La prima sirena non si sente in strada. Prima arriva un odore: legno caldo, plastica che si arrende, un respiro tossico che annuncia il disastro. Poi un fruscio che corre lungo la facciata, come vento intrappolato nei teli verdi, e infine la lingua di fuoco che si arrampica sulle impalcature, nasce da un angolo, punta in verticale, aggancia i piani alti, salta su un’altra torre. Nel giro di pochi minuti, in un complesso residenziale da otto grattacieli, le fiamme divorano sette edifici.

A Hong Kong, quartiere di Tai Po, il 26 novembre 2025, il nome di Wang Fuk Court diventa sinonimo di una tragedia che traccia una linea nella storia urbana: almeno 83 morti accertati, più di 70 feriti, 279 persone disperse mentre le squadre di soccorso continuano a setacciare piani anneriti e corridoi crollati. Le autorità parlano del peggior incendio degli ultimi decenni. E davanti ai resti delle torri carbonizzate, la prima risposta porta in un’unica direzione: le impalcature di bambù e i materiali infiammabili usati nei lavori. Ma dietro la superficie di questa versione preliminare, la lista delle responsabilità potrebbe essere molto più lunga.

Wang Fuk Court nasce negli anni ’80 come prodotto dello Home Ownership Scheme, il programma pubblico che ha permesso a migliaia di famiglie di comprare casa a prezzi calmierati. Otto torri, circa duemila unità abitative, una popolazione tra le 4.600 e le 4.800 persone, 31 piani e oltre. Un condensato verticale del modello urbanistico di Hong Kong: ascensori eterni, ballatoi stretti, cortili interni che vedono poco il sole, piccoli centri commerciali incastrati alla base. Quando il fuoco è esploso, tutte le facciate erano avvolte dal consueto bozzolo di un cantiere: bambù legato con fascette, rivestito da rete verde e teli plastici. Un involucro che avrebbe dovuto proteggere. È lì, però, che le fiamme hanno trovato ossigeno e, soprattutto, combustibile.

Alle 14:51 ora locale arrivano i primi allarmi alla Fire Services Department. I vigili del fuoco arrivano subito, ma la progressione è già fuori scala. L’emergenza viene classificata No. 5 alarm alle 18:22, il livello massimo. Le fiamme, alimentate dal bambù e dalla copertura plastica, si arrampicano sull’esterno di uno degli edifici — in alcune ricostruzioni identificato come Wang Cheong House — per poi saltare alle torri vicine, complice il vento e la distanza minima tra i corpi scala. Nella notte, 128 autopompe e più di 700 operatori lavorano tra calore estremo, esplosioni interne e detriti che piovono dalle facciate. Solo all’alba alcuni fronti risultano controllati, altri si riaccendono, altri ancora restano irraggiungibili.

Il bilancio cresce minuto dopo minuto: 83 morti, tra cui un vigile del fuoco, oltre 70 feriti ricoverati negli ospedali della Hospital Authority, e 279 dispersi. Il numero è così alto che la polizia istituisce una linea dedicata per le segnalazioni. Oltre 900 residenti vengono trasferiti in otto centri di accoglienza allestiti dal Tai Po District Office, con il supporto della Hong Kong Red Cross, del Social Welfare Department e del Major Incident Control Centre. Per una città abituata alle crisi, l’ampiezza del disastro resta qualcosa di inedito.

Le prime ore dell’indagine portano a tre arresti: uomini collegati alla ditta appaltatrice, la Prestige Construction & Engineering Company. L’ipotesi è di omicidio colposo per grave negligenza. Nel mirino finiscono due elementi: l’uso di materiali non ignifughi — pannelli in schiume plastiche come il polistirene, teli impermeabili, coperture temporanee — e la rete verde delle impalcature di bambù. Gli esperti parlano di un “effetto stoppino”: se i teli non sono ignifughi, diventano una miccia verticale perfetta. Se c’è vento, la fiamma corre. Se ci sono rientranze, cavedi, balconi, trova nuovi inneschi. È la dinamica già vista in altri incendi esplosivi in aree ad alta densità.

A Hong Kong l’uso del bambù non è folklore. È tecnica codificata, pratica, leggera e adattabile a facciate complesse. Ma resta materiale combustibile. Normalmente, la protezione viene affidata a reti e teli ritardanti di fiamma. Se i materiali non rispettano gli standard o se sui ponteggi si accumulano residui — solventi, vernici, scarti di lavorazione — la struttura diventa un combustibile più che un supporto. La Buildings Department ricorda che a ottobre ha inviato una circolare sui requisiti dei teli fire-retardant a tutti i professionisti registrati. Ora chiede certificazioni e prove d’acquisto ai contractors coinvolti.

Nei racconti dei sopravvissuti emergono altri dettagli: finestre sigillate per i lavori, pannelli in schiuma vicino agli ascensori, corridoi ingombri di materiali. Se confermati, descrivono un ambiente perfetto per l’effetto camino: facciata “incapsulata”, ventilazione bloccata, fumo che sale in pressione, materiali interni già predisposti a bruciare. Gli ingegneri antincendio internazionali spiegano che la velocità di propagazione vista a Wang Fuk Court implica la presenza di più acceleranti passivi: polistirene, coperture plastiche, sigillature provvisorie fuori norma. E una ventilazione forzata dalla stessa impalcatura di facciata che avrebbe incanalato la fiamma nei punti più vulnerabili.

Sul campo, le squadre del Fire Services Department usano portate d’acqua straordinarie e le turntable ladders fino al limite massimo dell’altezza utile. Il problema è tipico dei 31 piani: quando l’accesso interno è compromesso dal fumo, raggiungere i livelli alti diventa una corsa contro un muro di calore. Vengono impiegati droni con termocamere e 26 team di ricerca e soccorso. Gli ospedali pubblici — Alice Ho Miu Ling Nethersole, Queen Elizabeth, Prince of Wales — aprono la procedura di maxiemergenza. La polizia mobilita oltre mille agenti per evacuazioni e perimetri di sicurezza. Il Tai Po District Office istituisce navette e attiva i care teams dei distretti vicini.

Sul fronte politico, il Chief Executive John Lee ordina ispezioni immediate in tutti i complessi residenziali pubblici in ristrutturazione. Il governo della HKSAR vara un Support Fund da 300 milioni di dollari di Hong Kong per i residenti di Wang Fuk Court, mentre la Hong Kong Monetary Authority chiede alle banche flessibilità straordinaria per gli sfollati. Ma la questione più esplosiva è un’altra: se abbandonare definitivamente le impalcature di bambù in favore di strutture metalliche ignifughe. Il governo chiede ai contractors di presentare in sette giorni la prova dell’uso di materiali ritardanti di fiamma. È l’inizio di un cambio di paradigma che potrebbe riscrivere un tratto identitario dei cantieri della città.

L’indagine si allarga. Oltre alle accuse di manslaughter, viene coinvolta la ICAC – Independent Commission Against Corruption. Si indaga sulle certificazioni dei materiali, sugli appalti, sui rapporti tra i registered contractorse gli Incorporated Owners del complesso. Gli investigatori passano al setaccio documenti, prove di laboratorio, contratti, corrispondenze interne. Il nodo decisivo sarà stabilire se reti, teli e sigillature rispondessero davvero agli standard dichiarati e se i controlli previsti dal Buildings Ordinance siano stati eseguiti correttamente.

Le torri degli anni ’80, come quelle di Wang Fuk Court, scontano un’eredità edilizia: impianti antincendio limitati, assenza di sprinkler diffusi, mancanza di refuge floors, rilevatori insufficienti. Hong Kong ha avviato programmi di retrofit, ma il ritardo è enorme. E la pressione immobiliare produce una sequenza continua di cantieri in edifici abitati. In questo equilibrio fragile, il cantiere diventa il punto di massima vulnerabilità. Se l’ipotesi su ponteggi e materiali non ignifughi venisse confermata, il complesso di Tai Po diventerebbe l’emblema di ciò che può accadere quando una singola falla tecnica trova un contesto pronto a moltiplicarne gli effetti.

La città reagisce con una doppia anima: solidarietà e rabbia. Le donazioni aumentano, si creano raccolte spontanee, i cittadini si mettono in fila davanti ai centri di accoglienza. Ma sui social circolano video che mostrerebbero imprudenze sui ponteggi e materiali sospetti; altri chiedono conto dei mancati controlli. Il paragone con Grenfell Tower emerge subito, soprattutto sul tema dei rivestimenti combustibili. E colpisce la consapevolezza che sette torri su otto possano andare a fuoco insieme: un incubo che mette a nudo la fragilità dell’intero sistema.

Sul piano operativo, tecnici e funzionari discutono le misure immediate: teli certificati, controlli indipendenti, interruzioni verticali delle facciate per spezzare la continuità della fiamma, gestione rigorosa dei materiali, sistemi temporanei di rilevamento e irrigazione nelle zone critiche dei ponteggi. Prassi note, soluzioni esistenti. Ma l’incendio di Wang Fuk Court mostra quanto ogni singola deroga, ogni risparmio, ogni scorciatoia acquistino un peso insopportabile in un contesto ad altissima densità. Qui il fuoco non ha solo bruciato: ha seguito, con logica spaventosa, il percorso che i materiali gli hanno disegnato.

Le prossime 72 ore saranno decisive. Le autorità avvertono che il numero delle vittime potrebbe salire. Alcune torri restano inaccessibili, alcune aree continuano a sprigionare calore. Le identificazioni richiederanno tempo: servirà incrociare i registri condominiali, le segnalazioni dei parenti, i dati delle telecomunicazioni, i log di accesso. I soccorritori cercano gli ultimi superstiti e, allo stesso tempo, impediscono nuove riaccensioni sulle facciate ancora avvolte nei teli.

Se l’ipotesi dei materiali non conformi diventasse certezza, la risposta normativa dovrà essere immediata: impalcature metalliche obbligatorie oltre una certa altezza, divieto di schiume in prossimità dei percorsi d’esodo, ispezioni a sorpresa, tracciabilità digitale delle certificazioni, sanzioni severe per Incorporated Owners e contractors inadempienti. Accanto a tutto questo, gli incentivi per installare sprinkler e sistemi di rivelazione fumi nei condomini anni ’80. Il Support Fund da 300 milioni e il coordinamento con la HKMA sono misure necessarie, ma non basteranno a ricostruire la fiducia. Quella passerà solo attraverso un cambiamento reale nei cantieri della città.

Resta un paradosso: gli strumenti per evitare una tragedia del genere esistono. Le procedure sono note. Gli standard sono scritti. Eppure, nell’intersezione tra densità estrema, cantieri permanenti e manutenzioni in economia, basta una catena di piccole sottovalutazioni per preparare la scena a un disastro. A Wang Fuk Court, il fuoco ha fatto il resto. È andato dove i materiali, le scelte, le omissioni gli hanno permesso di andare. Ora la città ha un compito doloroso ma inevitabile: scoprire chi ha firmato, chi ha autorizzato, chi avrebbe dovuto vigilare. Perché oltre ai numeri — 83 morti, 279 dispersi, sette torri coinvolte — restano i nomi. E nessuna regolazione, da sola, potrà mai sostituire la responsabilità di chi quei nomi avrebbe dovuto proteggerli.

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