Non solo il cane ma anche il maiale viene impiegato nella ricerca del tartufo
Non è soltanto il prodotto più caratteristico e singolare del Piemonte, ma una risorsa economica associata a profumi, colori, genti e costumi, secondo la definizione del torinese Mario Soldati (1906-1999), scrittore, sceneggiatore e regista. Si tratta del «tuber magnatum pico», cioè del tartufo bianco di Alba. Dallo scorso dicembre, la sua «cerca e cavatura» sono Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Tramandate oralmente da generazioni, le due pratiche richiedono un’ottima conoscenza dell’ambiente e dell’ecosistema, magnificando il rapporto fra il tartufaio e il cane, quasi una simbiosi in cui si fondono le competenze dell’uomo e l’abilità dell’animale. Da secoli il prezioso tubero è legato a una certa immagine del Piemonte. Le cronache riferiscono che Luigi XV di Francia, nel 1723, chiese a Vittorio Amedeo II di Savoia che gli fossero inviati alcuni cani esperti nella ricerca dei tartufi. Analoga richiesta fu inoltrata dalla corte inglese nel 1751: sette cani e due cercatori, i fratelli Vachina, s’imbarcarono per l’oltre Manica dove scoprirono, nei pressi di Windsor, i primi tartufi in terra britannica. Non tutti sanno che la Tipografia Regia di Torino, nel 1776, pubblicò addirittura un’opera in versi latini dal titolo «Tubera terrae». Ne era autore Giovanni Battista Vigo, nato a Corio Canavese nel 1719 e morto nel 1805 a Torino. Professore di eloquenza latina e autore di carmi su argomenti diversi, è oggi annoverato fra i poeti didascalici minori del Settecento. Scriveva Giovanni Battista Vigo: «Avendo rivolto il pensiero alla patria e considerato le molte ricchezze di cui è prodiga, voglio dire di quei suoi frutti che sono la delizia della tavola e che nutriti nel suo profondo seno quando sono maturi diffondono un così grato profumo: i celeberrimi tartufi». «Già mi chiamano – proseguiva Vigo – i pendii dei monti liguri ricoperti di vigne e di boschi, e il Tanaro e la Bormida con le valli che le loro onde erodono, e le belle colline care a Bacco e a Cerere che si alzano attorno ad Asti, madre di uomini illustri, e quelle del Monferrato. Già i cani latrano, con le narici vanno alla ricerca dei frutti nascosti e lieti li segnalano raspando con le unghie». Le conoscenze di Giovanni Battista Vigo spaziano dal campo scientifico a quello storico. I tartufi, afferma, svolgevano la funzione di ambasciatori gastronomici delle terre piemontesi presso le corti europee. Numerose erano le richieste di tartufi che pervenivano ai Savoia dalle monarchie del vecchio continente. Siamo a conoscenza che già nel 1380 i principi di Acaia inviarono alcuni esemplari del rinomato tubero a Bona di Borbone. Ma come è possibile scoprire i tartufi? «Alzati per tempo – sosteneva Vigo – e percorri queste fortunate campagne. Al mattino i cani percepiscono più intensamente il profumo che esala la terra coperta di rugiada se ha il grembo ricco tartufi, ed eccitati ne danno il segnale col fare agitato e dimenando la coda, e si danno alla loro gradita fatica». Attenzione, però. «Se qualcuno sarà stato più mattiniero e avrà percorso prima di te i siti che tu conosci, non potrai rallegrarti di un’abbondante raccolta: vedrai le buche da cui è stato divelto ciò che speravi essere tuo, ti addolorerai invano per quello che ti sarà stato sottratto, e acceso d’ira maledirai il tuo ritardo». «Il Vigo – è stato rilevato – si occupa anche della natura e dell’origine dei tartufi, e riferisce le credenze romane che i tartufi nascano con le piogge d’autunno dai tuoni e dalle scariche elettriche dei fulmini. Dietro queste osservazioni apparentemente fantastiche si può osservare un riscontro ecologico legato al fatto che le piogge di fine agosto ed inizio settembre favoriscono lo sviluppo soprattutto del tartufo bianco».
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