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Donne contadine

La centralità della figura femminile nel mondo rurale emerge dalle pieghe più nascoste della memoria collettiva, dai ricordi dei vecchi, dalle storie di vita che narrano di sacrifici e di privazioni, di terre fertili ma esigenti, che non regalavano nulla, di giornate interminabili trascorse sull’aia a spannocchiare la meliga e a mondare il grano. Oltre al compito di accudire i figli, sulla donna contadina gravavano tutte le incombenze domestiche: era lei che badava alla casa, attingeva l’acqua dal pozzo, lavava, filava la canapa, cuciva e preparava i pasti. Toccava alla donna occuparsi dell’orto e degli animali da cortile. Talvolta le si chiedeva pure di dare una mano nella stalla o nei campi, specie nei giorni della fienagione, della mietitura e della raccolta della frutta. Era la donna, inoltre, che vegliava sulla salute di tutti i famigliari, prendendosi cura del marito e dei figli, assistendo gli anziani inabili. La subordinazione della moglie nei confronti del capofamiglia era pressoché assoluta. Però una massima popolare afferma: «A son j’òmo ch’a pòrto le braje, ma soens a son le fomne ch’a comando an ca» (sono gli uomini che indossano i calzoni, ma spesso sono le donne a comandare in casa). Ancora più dura appariva la condizione della vedova che si trovava suo malgrado ad affrontare le mille difficoltà della vita quotidiana, all’interno di una società fortemente maschilista, senza la rassicurante presenza di un uomo adulto al fianco. Lo «Stato delle anime del luogo e parrocchia di Settimo Torinese» (anno 1837) segnala, comunque, donne che esercitavano il mestiere di pescatrice, margara, ortolana, bovara (presso le cascine Caffadio, Spada, Nuova, Borniola, Chela, Brusà, Isola), funaiola, massara, ecc. In genere le faccende domestiche e l’educazione dei bambini non erano ritenute un vero e proprio lavoro, dato che rientravano nella sfera dei doveri derivanti dallo spirito di dedizione e dall’amore per la famiglia. Quest’ultima si identificava con la casa intesa come unità di individui che vivevano attorno allo stesso focolare ed erano accomunati da un unico destino. Oltre ai due coniugi e ai loro figli, ne facevano parte i fratelli non sposati, gli anziani genitori, gli eventuali nipoti e qualche altro parente, nonché i garzoni e i servi di campagna. Anche nella zona di Settimo, Chivasso e Cirié, fino agli ultimi decenni dell’Ottocento, le mogli usavano abitualmente il «voi» per rivolgersi ai mariti e ai vecchi; questi rispondevano col «tu». Il ruolo della donna all’interno della famiglia contadina di stampo patriarcale è bene evidenziato da un’usanza un tempo diffusa in molte località piemontesi e riferita pure dall’etnografo Gaetano Di Giovanni in un suo saggio edito nel 1889. Dopo la celebrazione del matrimonio, quando la nuova coppia accompagnata da amici e parenti tornava dalla chiesa, la madre dello sposo elencava con tono solenne, alla giovane nuora, i compiti che l’attendevano: «Bisognerà condurre gli animali al pascolo, mungere le vacche, lavorare nei campi, falciare l’erba...». La donna prontamente rispondeva: «E io pascolerò gli animali, mungerò, lavorerò nei campi e falcerò...». Ma la suocera replicava: «Si tratterà di fare qualcosa di più, cioè di alzarsi per prima e coricarsi per ultima». E la nuora: «Con l’aiuto di Dio e di vostro figlio farò anche questo». Allora la suocera si sfilava il mestolo dalla cintura e lo consegnava alla giovane come segno della sua nuova autorità domestica. La donna anziana, tuttavia, continuava a esercitare una grande influenza all’interno della famiglia.
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