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30 Gennaio 2020 - 16:15
“De gustibus non est disputandum” dicevano i Latini, ovvero parlare dei gusti delle singole persone è tempo perso. Il principio dovrebbe valere anche per i gusti musicali e, verosimilmente, anche per il Festival di Sanremo, ma niente da fare: ogni anno, tra fine gennaio e la prima metà di febbraio, puntuali come Giovanni Scinica all’inaugurazione di una mostra, gli Italiani discutono di musica con la disinvoltura e la competenza di un critico di “Rolling Stone”. Ma che cosa influenza i nostri gusti musicali? A dirla un po’ romanticamente ci piacciono le melodie capaci di suscitare in noi qualche emozione. A dirla secondo la scienza, la parte del cervello che analizza ed immagazzina il segnale sonoro è in diretta comunicazione con quella che provoca le sensazioni piacevoli. È un po’ come se il cervello, influenzato dalla cultura e dall’educazione ricevute, catalogasse i suoni percepiti a seconda della loro piacevolezza.
In questo processo di selezione, come si può facilmente intuire, gioca un ruolo importante anche l’età. Studiosi statunitensi hanno dimostrato come l’amore per la musica nasca durante l’adolescenza. I ragazzi, impegnati a stabilire la propria identità, usano la musica per definire la propria indipendenza e quindi prediligono generi “intensi” come il punk o il metal, oppure generi contemporanei, come il rap o il pop, che permettano loro di opporsi allo status quo rappresentato dai genitori e dalla società che li circonda. Poi, avanzando verso l’età adulta, i gusti si modificano e, progressivamente, tendiamo a generi musicali più tranquilli e rilassanti, secondo il vecchio adagio per cui si nasce incendiari e si muore pompieri. Si, certo, non avevamo bisogno che ce lo dicessero gli Americani, ma il fatto che l’impressione sia diventata scienza pone il tutto in una luce diversa, poco discutibile. Comunque, a parte questo, il concetto devono averlo avuto bene in mente gli organizzatori di Sanremo che, per la prossima edizione, hanno pensato di invitare a gareggiare il rapper Junior Cally, uno che gira con la maschera e che ha prodotto testi che, tra una bestemmia e l’altra, sembrano obiettivamente legittimare la violenza sulle donne.
La sua presenza dovrebbe, probabilmente, garantire di attrarre verso il Festival l’attenzione di una fetta di utenti adolescenti che, altrimenti, il Festival non lo guarderebbero mai. Non voglio soffermarmi sui testi del rapper e sull’opportunità di portarli in televisione. La considerazione è un’altra. I ragazzi devono trasgredire, lo abbiamo detto prima, per il loro benessere psichico. Hanno bisogno di spazi di trasgressione propri che noi adulti dobbiamo gestire ma non occupare. Se lo facciamo, li priviamo del significato salutare che i ragazzi danno loro e spingiamo i giovani a cercare forme di trasgressione sempre più estreme, là dove gli adulti non osano. Ecco, portare Junior Cally a Sanremo, da questo punto di vista, è proprio un’invasione di campo, è la legittimazione, e dunque lo svuotamento, di una forma di trasgressione peraltro già molto estrema e molto discutibile di per sé. Forse sarebbe stato meglio non farlo, considerato anche che Sanremo, comunque, piaccia o meno, ha un suo pubblico fedele e che, tutto sommato, degli adolescenti che ascoltano Junior Cally non ne ha bisogno. Chiudo qui, tormentato però ancora da una questione per me insolubile: ma chi diavolo devono conquistare con Rita Pavone?
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