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26 Novembre 2019 - 14:50
Il palazzo comunale di Settimo all’inizio del XX secolo
Ne hanno parlato un po’ tutti, alcuni con un occhio al presente più che alla storia. Il 16 novembre 1919, esattamente un secolo or sono, si tennero le prime elezioni politiche col metodo proporzionale, introdotto in Italia da una legge dell’agosto precedente. I risultati furono scioccanti, ma lo sarebbero stati anche col vecchio sistema maggioritario.
Com’è noto, il metodo proporzionale prevede il confronto fra liste di candidati e non fra singole persone. A ogni forza politica, diversamente dal sistema a collegio uninominale, garantisce un numero di seggi in proporzione ai voti ottenuti, favorendo i gruppi organizzati su scala nazionale.
All’epoca le consultazioni si svolgevano in modo differente da oggi. Nei seggi, la domenica stabilita, si effettuava dapprima l’appello degli elettori. Tutti i chiamati avevano la facoltà di esprimere il proprio voto. A ognuno il presidente consegnava la busta di votazione e non la scheda, che l’elettore doveva già avere con sé; poteva anche accettare quella che gli consegnavano i rappresentanti di lista quando accedeva al seggio. Il voto era segreto e si esprimeva nella cabina. L’elettore imbustava la scheda, la sigillava e la consegnava al presidente. Il lunedì seguente, alle ore 7, si effettuava lo spoglio. Al termine, il presidente proclamava il risultato dello scrutinio ad alta voce, incaricando il segretario di redigere il relativo verbale.
Quel 16 novembre di cento anni fa, le consultazioni si rivelarono disastrose per la vecchia classe dirigente. Sollecitato da nuove istanze, il sistema politico si mostrò incapace sia di reggersi sugli equilibri di sempre sia di esprimerne altri. I liberaldemocratici subirono una pesante sconfitta, perdendo un centinaio di seggi (scesero da oltre 300 a circa 200). Col 32 per cento dei consensi, i socialisti divennero il primo partito (156 seggi), seguiti dai popolari di don Luigi Sturzo (100). Impossibile costituire una maggioranza omogenea.
Come si espressero gli elettori a Settimo Torinese che allora contava circa seimila abitanti? I socialisti riportarono un autentico trionfo, ottenendo ben 970 voti, contro i 72 del Partito economico capeggiato dagli industriali, i 97 del Partito popolare e i 38 del Partito agrario. Davvero minimo (appena 44 voti) fu il consenso ri¬scosso dal Blocco della vittoria, il raggruppamento appoggiato da li¬berali di destra, nazionalisti, fascisti e aderenti ad alcune asso¬ciazioni di reduci.
Logorata da mille attriti e sostenuta da consiglieri che ormai facevano riferimento a forze politiche antagoniste, la coalizione liberalcattolica che amministrava il paese non poteva che palesare tutta la propria debolezza. Rispetto a oggi, i politici manifestavano una più elevata consapevolezza della propria dignità e una maggiore considerazione dell’elettorato. Prendendo atto della sonora batosta, i consiglieri della maggioran¬za decisero di rassegnare il mandato agli elettori. Altrettanto avvenne in numerosi comuni guidati da maggioranze liberali e cattoliche (Belluno, Genova, Padova, Piacenza, Vercelli e anche Torino). Nel caso di Settimo, a opporsi fermamente fu il prefetto Paolino Taddei. «Nessuna ragione giuridica – scrisse al sindaco, il 2 dicembre – può legittimare tali dimissioni, mentre [...] un alto sentimento del dovere impone di non abbandonare l’ufficio nel difficile momento che attraversiamo». La maggioranza acconsentì a procrastinare le dimissioni di qualche mese. Il consiglio comunale, tuttavia, non fu più convocato. L’11 febbraio dell’anno dopo, il prefetto dovette nominare un commissario. Stava per scoccare l’ora dei socialisti.
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