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La pace possibile: Trump e Zelensky avvicinano la fine della guerra

Dal vertice del 28 dicembre a Mar-a-Lago al piano in 20 punti: mesi di tensioni, diplomazia e compromessi portano il conflitto russo-ucraino a un bivio storico. Non è ancora la fine delle ostilità, ma per la prima volta la pace smette di essere solo una parola

La pace possibile: Trump e Zelensky avvicinano la fine della guerra

La pace possibile: Trump e Zelensky avvicinano la fine della guerra

La pace, questa volta, sembra davvero più vicina. Non è uno slogan né una promessa elettorale: è il clima che emerge dall’incontro del 28 dicembre, quando Donald Trump e Volodymyr Zelensky si sono seduti allo stesso tavolo a Mar-a-Lago, lontano dai palazzi ufficiali ma non dalle decisioni che contano. Un vertice informale solo nella forma, perché nella sostanza ha rappresentato il punto di arrivo di un lungo e accidentato percorso diplomatico iniziato mesi fa, fatto di tensioni, strappi, ripensamenti e, soprattutto, di una guerra che continua a pesare come un macigno sull’Europa e sul mondo. Non una foto opportunity, ma un momento politico vero, carico di aspettative e di conseguenze.

A Mar-a-Lago il tono è cambiato. Trump ha parlato apertamente di un accordo “molto vicino”, Zelensky ha confermato che il lavoro sul nuovo piano di pace è entrato nella fase finale. Nessuna firma, nessun annuncio solenne, ma una sensazione condivisa: il negoziato non è più un’ipotesi astratta, bensì un processo in corso, con testi, punti, compromessi già messi nero su bianco. Per la prima volta da tempo, la diplomazia non rincorre gli eventi militari, ma prova a precederli.

Per capire come si sia arrivati a questo momento bisogna tornare indietro, almeno all’inizio del 2025. A febbraio, l’incontro alla Casa Bianca tra Trump e Zelensky era stato tutt’altro che disteso. Le immagini avevano fatto il giro del mondo: toni duri, diffidenze reciproche, frizioni sulla gestione della guerra e sul peso che gli Stati Uniti continuavano a sostenere. In quei giorni, più che di pace, si parlava apertamente di rottura. Washington aveva persino rallentato, seppur temporaneamente, il flusso di intelligence verso Kiev, segnale politico pesantissimo, interpretato come un avvertimento più che come una semplice scelta tecnica. Sembrava l’ennesimo stallo, l’ennesimo punto morto di un conflitto entrato in una fase logorante.

Poi, lentamente, qualcosa è cambiato. A marzo, il summit di Londra con i principali Paesi europei e i partner NATO ha rimesso la diplomazia al centro. Non un tavolo di trattativa vero e proprio, ma un passaggio decisivo per ricompattare l’Occidente e chiarire un punto fondamentale: senza garanzie di sicurezza per l’Ucraina, nessun accordo sarebbe stato possibile. È lì che si prende atto di una realtà scomoda ma ormai evidente: Kiev non può accettare una pace fragile, fondata solo su promesse, così come Mosca non può essere spinta a un accordo che sembri una sconfitta totale. Da quel momento prende forma l’idea di un piano più snello, meno ideologico e più pragmatico rispetto alle proposte precedenti.

Durante l’estate, il dossier ucraino torna al centro dell’agenda internazionale. Trump avvia contatti diretti con Mosca, parlando apertamente con Vladimir Putin e sondando la disponibilità del Cremlino a discutere non un semplice cessate il fuoco, ma un meccanismo strutturato e verificabile. Non è una mossa priva di rischi: dialogare con Mosca mentre la guerra continua significa esporsi a critiche interne e internazionali, ma segna anche il ritorno di una diplomazia diretta che negli anni precedenti era rimasta congelata. Zelensky, da parte sua, accetta una linea più realistica: la pace non potrà essere una resa, ma nemmeno il ritorno immediato alla situazione pre-2022. È una svolta politica delicata, interna prima ancora che internazionale, che apre un dibattito acceso dentro l’Ucraina stessa.

In autunno prende corpo la nuova bozza: un piano di circa 20 punti, più corto rispetto alle versioni precedenti, ma più concreto. Al centro ci sono tre nodi fondamentali: il cessate il fuoco, le garanzie di sicurezza per Kiev e la gestione dei territori contesi, a partire dal Donbas e dalla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Le ipotesi sul tavolo parlano di una sospensione controllata delle ostilità, di zone demilitarizzate sotto supervisione internazionale e di un sistema di garanzie multilaterali che impegni Stati Uniti ed Europa a intervenire in caso di nuove aggressioni. Nessuna soluzione semplice, nessuna formula magica, ma l’idea di congelare il conflitto in modo ordinato, evitando nuove escalation e aprendo al tempo stesso la strada alla ricostruzione economica e sociale del Paese.

Il vertice di fine dicembre è il momento in cui tutto questo emerge alla luce del sole. Trump e Zelensky non partono da zero: arrivano con settimane di lavoro alle spalle, telefonate riservate, bozze già limate, punti ancora controversi ma chiaramente identificati. L’ottimismo che filtra non è casuale. Per la prima volta dall’inizio della guerra, entrambe le parti parlano lo stesso linguaggio: quello della fine delle ostilità, non come auspicio morale o slogan propagandistico, ma come obiettivo politico concreto, misurabile, negoziabile.

Resta molto da fare. Mosca non ha ancora sciolto tutti i nodi, soprattutto su territori e sicurezza; l’Europa chiede di essere coinvolta fino in fondo, temendo accordi bilaterali che la escludano; e in Ucraina il dibattito interno è tutt’altro che chiuso, tra chi teme concessioni e chi vede nella pace l’unica via per fermare una guerra di logoramento. Ma il dato politico è chiaro: la pace non è più un tabù, né una parola vuota da conferenza stampa. È una possibilità concreta, fragile, certo, ma reale, costruita passo dopo passo attraverso compromessi difficili e scelte impopolari.

Dopo quasi quattro anni di guerra, il 28 dicembre segna un passaggio simbolico e sostanziale insieme. Non la fine del conflitto, ma l’inizio della sua possibile conclusione. Insomma, per la prima volta da tempo, parlare di una “pace sempre più vicina” non suona come un’illusione o una speranza generica, bensì come una notizia. Una di quelle che, se confermata dai fatti, potrebbe riscrivere gli equilibri dell’Europa e del mondo.

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