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Le preghiere negli ospedali? Paga l’ASL TO4

Dalle corsie di Ciriè, Lanzo, Cuorgnè, Ivrea e Chivasso agli Hospice di Lanzo e Foglizzo, l’assistenza religiosa cattolica diventa una prestazione a carico della sanità pubblica, tra convenzioni, orari, compensi e una laicità sempre più contabile

Le preghiere negli ospedali? Paga l’ASL TO4

A destra Luigi Vercellino, direttore generale Asl To4

Solitamente si è portati a pensare che il lavoro dei parroci sia una questione di vocazione, di fede, di gratuità. Una mano sulla spalla, una preghiera sussurrata, una presenza silenziosa accanto a chi soffre. Tutto molto nobile. Tutto molto spirituale. Poi però capita che l’occhio cada su una delibera ufficiale dell’ASL TO4 e, improvvisamente, lo spirito inciampa… sul portagli.

Perché la fede, si scopre, sarà pure eterna, ma il bonifico è mensile.

Succede così di scoprire che l’assistenza religiosa cattolica negli ospedali di Ciriè, Lanzo, Cuorgnè e nell’Hospice di Lanzo non è affidata solo alla Provvidenza, ma anche a un impegno economico ben quantificato: 100.224 euro per il biennio 2026–2027. Nero su bianco, atto pubblico, deliberazione con la "benedizione" del Direttore generale Luigi Vercellino, tutto regolarmente approvato e pubblicato.

Altro che offerta nel cestino all’ingresso della cappella. Qui siamo alla spiritualità certificata, deliberata, numerata e protocollata. Con tanto di numero di conto e imputazione a bilancio.

Nel dettaglio, la convenzione stipulata tra l’ASL TO4 e l’Arcidiocesi di Torino prevede un contributo mensile di 4.176 euro, pari a 50.112 euro l’anno, per garantire un servizio di assistenza religiosa articolato su 58 ore settimanali, distribuite tra i vari presidi ospedalieri. A Ciriè si arriva a 2.520 euro al mese, a Lanzo 864 euro, a Cuorgnè 360 euro, più 432 euro per l’Hospice di Lanzo. Il tutto con rilevazione delle presenze, copertura assicurativa e persino accesso alla mensa ospedaliera “al costo previsto per il personale dipendente”.

messa

Insomma, il sacerdote non solo consola l’anima, ma timbra anche il cartellino. Perché la grazia divina sarà infinita, ma l’orario settimanale no: 58 ore, spalmate con precisione quasi liturgica. E guai a sforare, che nemmeno i miracoli sono previsti fuori contratto.

Non basta. C’è anche la Diocesi di Ivrea, di cui peraltro avevamo già scritto nel giugno scorso. Per la “messa” nei presidi ospedalieri di Ivrea, Chivasso e presso l’Hospice di Foglizzo, l’ASL TO4 versa la modica cifra di 91.200 euro per 54 ore settimanali e per il bienni 2025-2026, 2026-2027.

Ora, nessuno mette in discussione il diritto dei pazienti a ricevere conforto spirituale. È scritto nelle leggi, nei Concordati, nelle intese Stato–Chiesa. Ma la domanda, legittima e inevitabile, è un’altra: è davvero compito di un’ASL – già alle prese con carenze di personale, liste d’attesa infinite e reparti sotto pressione – occuparsi anche dell’anima, oltre che del corpo?

Perché qui non si parla di volontari che passano tra le corsie mossi solo dalla fede. Qui si parla di una prestazione regolata da una convenzione, con compensi fissi, orari stabiliti, costi a carico della sanità pubblica. Addirittura, l’articolo 3 del disciplinare arriva a parlare di “concorso al processo terapeutico dell’ammalato”, una formula che fa sorgere più di un sopracciglio: dove finisce la medicina e dove comincia il ministero spirituale?

E soprattutto: se la preghiera concorre alla terapia, perché non inserirla nel piano di cura? Una TAC, un’analisi del sangue e, già che ci siamo, un'Ave Maria, un "Padre Nostro" e un "Credo". Magari in regime di urgenza. Con priorità spirituale.

Il paradosso è tutto lì. Da una parte si predica la gratuità della fede, dall’altra si contabilizza la spiritualità su un capitolo di spesa. Da una parte il Servizio sanitario nazionale arranca, dall’altra trova risorse per garantire cappelle, sacrestie, locali d’ufficio, utenze, pulizie e riscaldamento dei luoghi di culto. Tutto a carico dell’ASL.

Perché i pazienti possono attendere, ma il Santissimo non può prendere freddo. Le liste d’attesa si allungano, ma le candele devono restare accese. Sempre.

E allora la domanda finale non è blasfema, ma profondamente laica: in un sistema sanitario pubblico, dove ogni euro è prezioso, è giusto che la cura dello spirito venga finanziata come una qualsiasi altra prestazione? O forse sarebbe il caso di separare, una volta per tutte, ciò che appartiene alla sanità da ciò che appartiene alla fede?

Insomma, mentre i cittadini aspettano mesi per una visita specialistica, c’è almeno una cosa che funziona con puntualità svizzera: la fatturazione della Provvidenza. Con contributo mensile. Con nota di liquidazione. Con copertura assicurativa.

Ma c’è dell’altro.

C’è un aspetto della vicenda che merita di essere guardato con calma, quasi con rispetto. Non rispetto per la delibera, ma per l’arte del compromesso all’italiana. Quella capacità tutta nostra di fare una cosa e, nello stesso momento, di fingere di non averla fatta.

Per esempio: l’ASL TO4 non paga la religione. Paga l’assistenza. È una distinzione sottile, elegantissima, degna di un trattato di teologia amministrativa. Assistenza a chi? Ai malati che non si muovono dal letto?

Altra domanda: e l’assistenza alle altre religioni dove sta?
Perché se la libertà religiosa è un diritto, dovrebbe esserlo per tutti. A maggior ragione se è un servizio.

Invece no. Qui la pluralità si ferma alla porta. Dentro c’è un solo credo, molto ben organizzato, molto ben rappresentato, molto ben certificato. Gli altri, evidentemente, si arrangino con Dio. O con chi per lui.

Infine la parte più interessante, quella che passa quasi inosservata. Chi svolge davvero questo servizio? Non è scritto da nessuna parte che debba essere un prete. Anzi. Può essere un diacono, un religioso, oppure un laico. Un laico scelto, autorizzato, abilitato dall’Ordinario Diocesano. Un laico che non risponde allo Stato, ma alla Chiesa. Pagato però dall’ASL TO4.

Un piccolo capolavoro. La laicità che finanzia il laico… purché certificato dal Vescovo o dall'Arcivescovo.

A questo punto viene da chiedersi: ma allora cosa stiamo pagando davvero? Una funzione? Un ruolo? Una benedizione amministrativa? Perché se basta l’abilitazione ecclesiastica, allora il confine tra servizio pubblico e ministero privato diventa così sottile da scomparire del tutto.

E non è una questione di anticlericalismo, che è roba vecchia e pure noiosa. È una questione di coerenenza. Perché lo Stato, quando si tratta di sanità, pretende titoli, concorsi, graduatorie, protocolli, verifiche. Ma quando entra lo spirito, improvvisamente si fida. Si affida. Delega.

In fondo è una scelta rassicurante: meglio occuparsi delle anime che delle responsabilità. L’anima non protesta, non fa ricorso, non chiede tempi certi. Al massimo prega.

E così tutto torna. La laicità resta sulla carta. Il pluralismo resta nei discorsi. E la realtà, come sempre, trova una scorciatoia molto italiana. Amen...

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