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Bangladesh, chi vuole zittire i giornali? Incendiate le sedi di Prothom Alo e The Daily Star dopo l’uccisione di Sharif Osman Hadi

Dalla morte dell’attivista Sharif Osman Hadi agli assalti coordinati contro le principali redazioni del Paese: a Dhaka le rotative si fermano per la prima volta dopo decenni. Giornalisti intrappolati dal fumo, accuse politiche, indagini aperte e una transizione democratica sempre più fragile

Bangladesh, chi vuole zittire i giornali? Incendiate le sedi di Prothom Alo e The Daily Star dopo l’uccisione di Sharif Osman Hadi

Foto X

Un’ora dopo la mezzanotte di giovedì 18 dicembre, un messaggio rimbalza sui telefoni di Dhaka: «Non riesco più a respirare, c’è troppo fumo. Sono dentro. Mi state uccidendo». A scriverlo è una giornalista del quotidiano The Daily Star, intrappolata al buio insieme a decine di colleghi mentre, all’esterno dell’edificio, una folla accende roghi e l’aria diventa irrespirabile. È la notte in cui la morte dell’attivista Sharif Osman Hadi — ferito a Dhaka il 12 dicembre e deceduto il 18 dicembre in un ospedale di Singapore — trasforma la capitale del Bangladesh in un luogo ostile per l’informazione. Nel giro di poche ore vengono presi d’assalto gli uffici di Prothom Alo e The Daily Star, due delle testate più influenti del Paese. Ci sono incendi, devastazioni, giornalisti bloccati per ore fino all’arrivo dei soccorsi. Le rotative si fermano. È un fatto rarissimo in un Paese dove i giornali hanno continuato a uscire anche durante le fasi più dure della repressione politica.

Sharif Osman Hadi, 32 anni, era una figura centrale del movimento studentesco che nel 2024 ha contribuito alla caduta del governo dell’ex premier Sheikh Hasina. Portavoce del gruppo Inqilab Mancha, stava preparando una candidatura indipendente alle elezioni previste per febbraio 2026. Il 12 dicembre, all’uscita da una moschea di Dhaka, viene colpito da diversi colpi di arma da fuoco. Secondo le prime ricostruzioni, gli aggressori erano in moto. Trasportato d’urgenza al Dhaka Medical College Hospital, viene successivamente trasferito a Singapore per cure specialistiche. Muore sei giorni dopo. La notizia della sua morte innesca proteste immediate, cortei spontanei e sit-in nel centro della capitale.

Il profilo politico di Hadi lo aveva reso un bersaglio sensibile in una fase di transizione già segnata da forti tensioni. Era noto per le sue posizioni critiche verso l’influenza dell’India negli equilibri interni del Bangladesh ed era diventato un riferimento per una generazione che, nelle piazze del 2024, aveva chiesto riforme, elezioni competitive e la fine di un sistema considerato autoritario. Negli ultimi mesi aveva denunciato pubblicamente minacce e intimidazioni. Ora sarà compito delle indagini stabilire se e come quei segnali fossero collegati all’agguato, con metodi verificabili e senza scorciatoie narrative.

Dopo l’annuncio ufficiale del decesso, gruppi di manifestanti si concentrano nell’area di Shahbagh, tradizionale epicentro della mobilitazione politica, per poi muoversi verso le sedi dei principali giornali. Secondo ricostruzioni concordanti, centinaia di persone raggiungono l’edificio di Prothom Alo nel quartiere di Karwan Bazar. Alcuni entrano, salgono ai piani, distruggono uffici, computer e archivi. Documenti e arredi vengono trascinati all’esterno e dati alle fiamme. Poco dopo tocca alla sede di The Daily Star. L’incendio viene contenuto intorno all’1.40 del mattino, ma all’interno restano intrappolati almeno 27 dipendenti, bloccati dal fumo e dal calore. Scene simili vengono segnalate in altri punti della città, mentre tra le redazioni cresce il timore di nuovi attacchi.

L’impatto è immediato. Prothom Alo e The Daily Star sono costretti a fermare le rotative, mancando l’uscita in edicola per la prima volta dopo decenni. Per la comunità giornalistica bengalese è uno shock che segna una cesura evidente. I vigili del fuoco e le forze di sicurezza riescono a evacuare le persone rimaste intrappolate, ma le immagini di cronisti sdraiati a terra, con mascherine improvvisate, per cercare aria meno densa, circolano rapidamente e diventano il simbolo di una notte che supera i confini nazionali.

Gli assalitori accusano Prothom Alo e The Daily Star di essere vicini all’India e, in alcune narrazioni, all’ex establishment politico. Una retorica che da mesi alimenta sit-in e proteste davanti alle redazioni, in particolare da parte di gruppi islamisti e frange radicali della protesta. A rendere il quadro ancora più complesso c’è il sospetto, diffuso tra i manifestanti, di presunti legami tra i vertici dei giornali e il governo ad interim guidato da Muhammad Yunus, premio Nobel per la Pace. Un intreccio di percezioni e accuse che non giustifica la violenza, ma aiuta a comprenderne il bersaglio simbolico. La motivazione precisa degli attacchi resta comunque materia d’inchiesta, e molte affermazioni circolate nelle ore successive necessitano di verifiche puntuali.

Nel suo messaggio alla nazione, il capo dell’esecutivo ad interim Muhammad Yunus definisce la morte di Hadi «una perdita irreparabile» e invita alla calma, annunciando preghiere speciali e una giornata di lutto. Le autorità promettono un’indagine trasparente sull’agguato del 12 dicembre. La polizia diffonde le immagini di due sospetti e annuncia una taglia di 5 milioni di taka (circa 42.000 dollari) per informazioni utili all’arresto. Dal piano internazionale arriva l’appello dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (ONU), Volker Türk, che chiede un’inchiesta rapida, imparziale e accurata e il rispetto del diritto di cronaca.

La crisi si inserisce in una transizione fragile. Dopo la mobilitazione studentesca dell’estate 2024, Sheikh Hasina, al potere per quattro mandati consecutivi e accusata dall’opposizione di aver svuotato di significato il voto di gennaio 2024, ha lasciato il Paese rifugiandosi in India. Oggi il Bangladesh è guidato da un governo provvisorio con il compito di ristabilire l’ordine e accompagnare il Paese verso le elezioni del 2026. L’avvicinarsi delle urne accentua gli scontri politici e mette sotto pressione le istituzioni. Sullo sfondo resta il delicato triangolo Dhaka–Nuova Delhi–Singapore, con il trasferimento di Hadi e la gestione del caso che aggiungono una dimensione internazionale a una crisi già complessa.

Gli assalti alle redazioni sollevano un allarme più ampio sulla libertà di stampa. Secondo stime diffuse in queste ore, oltre 1.000 giornalisti in Bangladesh sarebbero stati aggrediti o perseguitati nell’ultimo anno. Il Committee to Protect Journalists (CPJ) condanna gli attacchi a Prothom Alo e The Daily Star e chiede alle autorità di garantire la sicurezza delle redazioni e di perseguire i responsabili. La posta in gioco non riguarda solo l’incolumità dei cronisti, ma la possibilità stessa per i cittadini di informarsi senza intimidazioni.

Le testimonianze raccolte nelle ore successive parlano di gruppi partiti da Shahbagh che hanno raggiunto Karwan Bazar a piedi e in moto. Una volta entrati nella sede di Prothom Alo, alcuni manifestanti sarebbero saliti fino al quarto piano, distruggendo attrezzature e archivi. Presso The Daily Star, il fumo ha reso impraticabili le scale, costringendo decine di persone a rifugiarsi negli uffici in attesa dei soccorsi. Gli appelli lanciati in diretta sui social media da giornalisti e colleghi hanno contribuito ad accelerare l’intervento dei vigili del fuoco.

Nelle proteste di quei giorni, molti cortei hanno esposto cartelli contro l’India, accusata da una parte della piazza di esercitare un’influenza eccessiva sugli affari interni del Bangladesh. L’ostilità verso Nuova Delhi non è nuova nel dibattito politico bengalese, ma l’uccisione di Hadi, noto per le sue posizioni critiche, l’ha rilanciata con forza. Le autorità di Dhaka hanno accennato alla possibilità che il presunto sicario sia fuggito oltreconfine, un’ipotesi che, se confermata, avrebbe ricadute diplomatiche significative. Per ora si tratta di piste investigative ancora aperte.

Nelle prossime ore, il governo ad interim sarà chiamato a dimostrare la propria capacità di gestione su più fronti: la conduzione di un’indagine credibile sull’omicidio di Hadi, il ripristino dell’ordine pubblico nelle aree colpite da incendi e vandalismi, e la garanzia di condizioni di sicurezza per media e opposizioni in vista delle elezioni del 2026. La protezione delle redazioni resta un nodo centrale. In una democrazia, anche in transizione, l’informazione non può diventare un obiettivo legittimo della violenza politica.

Restano domande aperte. Chi ha organizzato e finanziato gli attacchi contro Prothom Alo e The Daily Star. Se le accuse di parzialità rivolte ai giornali abbiano basi concrete o siano strumenti di lotta politica. A che punto siano realmente le indagini e se la pubblicazione delle immagini dei sospetti rappresenti un avanzamento sostanziale. E quale impatto avrà la gestione del caso Hadi sui rapporti con l’India e sull’agenda interna del governo provvisorio.

Gli incendi della notte del 18 dicembre non riguardano solo due redazioni. Rappresentano un test per l’intero sistema informativo del Sud Asia, dove i media sono spesso il primo bersaglio quando le istituzioni entrano in crisi. Nel Bangladesh del dopo Hasina, la sicurezza dei giornalisti, la tutela delle sedi e l’imparzialità delle indagini saranno indicatori decisivi della credibilità del percorso verso le elezioni. Normalizzare la violenza come strumento di pressione politica significherebbe accettare una deriva che va oltre l’informazione e investe l’intera società civile.

È confermata la morte di Sharif Osman Hadi a Singapore il 18 dicembre, dopo il ferimento del 12 dicembre a Dhaka. Sono confermati gli assalti e gli incendi alle sedi di Prothom Alo e The Daily Star, con decine di persone intrappolate e soccorse nelle prime ore del 19 dicembre. È confermata la condanna internazionale e la richiesta di indagini imparziali e di protezione per i giornalisti. Restano da chiarire i mandanti e le reti di supporto degli aggressori e la catena di responsabilità che ha portato a un attacco coordinato contro i media.

Fonti utilizzate: The Daily Star, Prothom Alo, Dhaka Medical College Hospital, Polizia del Bangladesh, Governo ad interim del Bangladesh, Nazioni Unite – Alto Commissariato per i diritti umani, Committee to Protect Journalists (CPJ).

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