La zona rossa di Chivasso non finisce. Doveva chiudersi il 20 dicembre, invece andrà avanti almeno fino al 20 marzo. La notizia è arrivata ieri sera, in Consiglio comunale, direttamente dal sindaco Claudio Castello: il Prefetto di Torino ha deciso la proroga dell’ordinanza che da settembre circonda la stazione ferroviaria e il Movicentro con un perimetro di vigilanza rafforzata.
Una decisione che pesa, perché cade dopo mesi di dibattito acceso, polemiche politiche e una domanda rimasta sempre sospesa: la zona rossa sta davvero servendo?
Quando fu annunciata, a settembre, il tono era solenne. Il Comune parlava di “segnale forte dello Stato”, di “civile convivenza da difendere”, di controlli coordinati contro degrado, spaccio e bivacchi. La fotografia ufficiale mostrava il tavolo del Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica, con Prefetto Donato Cafagna, questore, vertici di Carabinieri e Guardia di Finanza, Polfer e FS Security. Sul tavolo: sgomberi, immobili da mettere in sicurezza, varchi da chiudere, allontanamenti per chi aveva precedenti e comportamenti molesti.
Poi, sul campo, la realtà. Nei primi giorni sono arrivati anche due arresti, dentro il perimetro del Movicentro: resistenza a pubblico ufficiale, trasferimento a Torino, convalida e scarcerazione con obbligo di firma. Episodi veri, documentati, che il Comune ha indicato come primi “effetti” del provvedimento. Ma subito dopo, la sensazione diffusa è stata un’altra: controlli a intermittenza, presenza discontinua, ritorno graduale alle vecchie abitudini.

È lì che si è aperto lo scontro politico. In Consiglio, Bruno Prestìa, capogruppo di Per Chivasso, ha parlato di misura simbolica, “fumo negli occhi”, chiedendo pattugliamenti serali fissi, più illuminazione, più telecamere, una commissione sicurezza. Una mozione bocciata, ma che ha lasciato il segno. Perché la stazione, da almeno tre anni, resta una ferita aperta: aggressioni, molestie, bivacchi, risse, furti. Un elenco che i cittadini conoscono fin troppo bene.
La risposta del sindaco è rimasta negli atti – e nella memoria del dibattito cittadino – con una frase secca, pronunciata in aula: «Cosa dobbiamo ancora fare, chiedere l’aiuto delle teste di cuoio della NATO?». Una battuta amara, ma anche la sintesi di una linea politica: più del Prefetto non si può, ha ripetuto Castello. Il Comune, sostiene la maggioranza, ha fatto il massimo possibile dentro i suoi limiti.
Ora però arriva la proroga. Tre mesi in più di zona rossa, tre mesi in più di un dispositivo che non nasce come soluzione strutturale, ma come misura straordinaria. E che straordinaria rischia di non esserlo più, se diventa la normalità senza risultati percepibili.
Le sanzioni progressive – 100 euro, 200 euro, poi denuncia – restano sulla carta uno strumento di deterrenza. Ma per chi non ha reddito, casa o prospettive, il rischio è che siano numeri senza effetto reale. Anche le forze dell’ordine lo sanno: senza continuità, senza presenza visibile, ogni ordinanza perde forza col passare delle settimane.
La proroga decisa dal Prefetto tiene insieme due verità scomode. Da un lato, riconosce che il problema alla stazione di Chivasso non è risolto. Dall’altro, certifica che finora non è stata trovata un’alternativa più efficace. Tavoli, incontri, annunci e comunicati si sono succeduti. La percezione dei cittadini, invece, è rimasta quasi immutata.
Da qui a marzo si capirà se la zona rossa diventerà davvero uno strumento capace di cambiare le cose o se resterà l’ennesima proroga di un’emergenza permanente.