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La Juventus non è in vendita. Ma solo perché il prezzo non è ancora giusto

Exor respinge l’offerta di Tether, ribadisce l’orgoglio centenario e giura fedeltà eterna al club. Traduzione dal finanziario: non ora, non così, non a queste cifre. Ma nel calcio globale, prima o poi, anche le dinastie fanno cassa

La Juventus non è in vendita. Ma solo perché il prezzo non è ancora giusto

La Juventus non è in vendita. Ma solo perché il prezzo non è ancora giusto

C’è un momento, nella storia di ogni grande club, in cui le smentite iniziano a diventare più interessanti delle notizie. È il momento in cui qualcuno bussa alla porta con una valigetta troppo leggera, e chi sta dentro risponde con un comunicato pesante come il marmo di Carrara. È esattamente quello che sta accadendo alla Juventus.

La proposta di Tether Investments – respinta all’unanimità dal Consiglio di amministrazione di Exor – è ufficialmente finita nel cestino. Non strappata, attenzione: archiviata. Perché nel capitalismo contemporaneo nulla si butta davvero, soprattutto quando si parla di un marchio globale come la Juventus. Si rimanda, si raffredda, si aspetta che il mercato maturi. O che maturi il prezzo.

E non si è trattato di una proposta vaga o di una suggestione da corridoio. Secondo diverse fonti internazionali, rilanciate anche dal Financial Times, Tether ha presentato un’offerta formale da circa 1,1 miliardi di euro per acquistare il 65,4 per cento della Juventus, cioè la quota oggi detenuta da Exor, la holding della famiglia Agnelli. A questa cifra si sarebbe aggiunto un impegno di investimento ulteriore di circa 1 miliardo di euro destinato allo sviluppo futuro del club: infrastrutture, rafforzamento sportivo, crescita del brand, espansione internazionale. Non una scorribanda finanziaria, ma un’operazione strutturata, con un orizzonte industriale dichiarato.

C’è poi un dettaglio tutt’altro che secondario, spesso lasciato ai margini del racconto ufficiale: Tether non è un soggetto esterno alla Juventus. Il gruppo di criptovalute detiene già oltre l’11 per cento delle azioni del club ed è quindi uno dei principali azionisti. Tradotto: non un curioso di passaggio, ma un socio che ha già messo capitale, studiato i conti, osservato la macchina dall’interno e poi deciso di alzare l’asticella.

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Exor, con una nota che sembra scritta più per la storia che per l’attualità, ribadisce concetti noti e rassicuranti: la Juventus è «un club storico e di successo», la famiglia Agnelli ne è «azionista stabile e orgoglioso da oltre un secolo», l’impegno è «pieno», il supporto al nuovo management è totale, la strategia è «chiara» e punta a risultati «dentro e fuori dal campo». È il classico linguaggio da fortezza assediata che vuole apparire inattaccabile.

Poi arriva la frase chiave, quella che chiude la porta: Exor «non ha alcuna intenzione di vendere alcuna delle sue azioni Juventus a terzi», inclusa – e qui il comunicato diventa quasi puntiglioso – Tether, società con sede in El Salvador. Non Milano, non Londra, non New York. El Salvador. Un dettaglio geografico che non serve ai mercati, ma serve al racconto: serve a dire che certi mondi sono ancora lontani, che certi capitali non sono quelli “giusti”. Almeno per ora.

Eppure, dietro questo no così deciso, si intravede una verità molto meno romantica. Perché Exor non dice mai che la Juventus non sarà mai venduta. Dice solo che non è in vendita oggi. E soprattutto, non lo è a queste condizioni. La distinzione è sottile, ma fondamentale.

La Juventus, piaccia o no ai tifosi, non è più solo una squadra di calcio. È un asset finanziario, un marchio globale, una piattaforma commerciale che vive di diritti tv, sponsorizzazioni, plusvalenze, stadio, merchandising e visibilità planetaria. E come tutti gli asset, ha una valutazione. Che può crescere. O calare. Ma che prima o poi incontra qualcuno disposto a pagarla.

La storia recente della galassia Elkann-Agnelli lo dimostra senza bisogno di interpretazioni forzate. Sono stati ceduti pezzi di industria che sembravano intoccabili, sono state ridimensionate partecipazioni considerate identitarie, sono stati fatti accordi che anni prima sarebbero sembrati impensabili. Sempre con la stessa narrazione: non una resa, ma una scelta strategica. Non una vendita, ma un’evoluzione.

In questo quadro, l’interesse di Tether non è un’anomalia, ma un segnale. Significa che la Juventus è osservata, studiata, valutata. Significa che qualcuno, fuori dall’Italia e fuori dai salotti tradizionali del capitalismo europeo, pensa che il prezzo possa salire ancora, ma non all’infinito. E quando qualcuno pensa che un prezzo sia destinato a salire, vuol dire che immagina anche il momento in cui diventerà conveniente venderla.

Oggi Exor dice no. Domani, forse, dirà “non ora”. Dopodomani, magari, “alle giuste condizioni”. È la normale grammatica del potere economico, mascherata da fedeltà storica. Una fedeltà che esiste, certo, ma che non è cieca, né eterna.

La Juventus resta quindi dov’è, nelle mani di chi la governa da oltre cent’anni. Ma non è più una cassaforte sigillata. È una vetrina illuminata, osservata da investitori che aspettano solo che il cartellino venga girato verso l’esterno.

Insomma, oggi non si vende.
Non a Tether.
Non a quel prezzo.

Ma chi pensa che la Juventus sia destinata a restare per sempre fuori dal mercato, probabilmente confonde la storia con la nostalgia. E nel calcio moderno, come nella finanza, la nostalgia non è mai stata un buon investimento.

C'erano una volta gli Agnelli

A Torino una volta c’erano gli Agnelli. Non serviva spiegare chi fossero: erano un plurale, come i Savoia o le Alpi. C’erano e basta. Arrivavano in casa con l’IllustratoFiat, che illustrava soprattutto Fiat, e con La Stampa, che stampava soprattutto certezze. Davano lavoro, davano automobili, davano un’idea di futuro. E facevano viaggiare tutti in Fiat, in una città che tifava Juve senza bisogno di dichiararlo.

Poi l’IllustratoFiat è sparito. Così, senza rumore, come spariscono le cose che non servono più a spiegare il mondo. Fiat non è sparita, ma si è spostata: ha cambiato nome, passaporto, accento. A Torino è rimasta più come ricordo che come fabbrica. La Stampa resiste, ma è in vendita. 

Resta la Juventus. L’ultima cosa davvero popolare rimasta. L’ultima che entra ancora in tutte le case, anche in quelle dove non entra più nulla. L’ultimo collante emotivo di una città che non costruisce più auto, non stampa più certezze, ma guarda ancora la partita.

E allora la domanda non è più scandalosa, è quasi inevitabile: che se ne fa un Agnelli della Juve?

Una volta la Juve era il punto finale di una frase lunga un secolo: Agnelli, Fiat, Torino, Juventus. Oggi è una frase a sé. E quando una cosa resta da sola, prima o poi qualcuno si chiede se convenga tenerla o valorizzarla. Che è un verbo elegante per dire venderla.

Non è una colpa, è una logica. Non è un tradimento, è un bilancio. E infatti nessuno dice più “la Juve non si venderà mai”. Si dice: “Non ora”. Che è la versione finanziaria di “vedremo”.

A Torino una volta c’erano gli Agnelli. Oggi ci sono ancora, ma come le grandi insegne storiche: fanno parte del paesaggio, non più della vita quotidiana. E la Juventus, che per anni è stata un’identità, rischia di diventare l’ultima voce da spuntare.

Non oggi.
Non a quel prezzo.

Ma l’idea che resti per sempre fuori dal mercato è romantica. E il romanticismo, si sa, non ha mai pagato i dividendi.

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