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10 Dicembre 2025 - 10:54
Thailandia–Cambogia, mezzo milione in fuga: cosa sta davvero accadendo lungo il confine conteso
La prima a spegnersi è stata la luce al neon di una drogheria ai margini di Surin, un attimo prima che un fischio lungo attraversasse le risaie. Poi il boato, i vetri che tremano, bambini sollevati di corsa. Nel giro di poche ore, lungo gli 800 chilometri di frontiera contesa tra Thailandia e Cambogia, le strade si sono svuotate e le pagode sono diventate punti di raccolta. Secondo i portavoce dei due governi, oltre 500.000 persone hanno lasciato le proprie case. “Più di 400.000 solo in Thailandia”, ha dichiarato il portavoce della difesa Surasant Kongsiri; “101.229 in Cambogia, pari a 20.105 famiglie in cinque province”, ha aggiunto la portavoce Maly Socheata. Sono cifre che delineano un’emergenza ampia e in movimento, mentre la situazione non mostra segnali concreti di stabilizzazione.
#THAILANDIA #CAMBOGIA
— Asiablog.it (@Asiablog_it) December 8, 2025
Le tristi immagini dei bambini in fuga dalle scuole lungo il confine dopo la ripresa dei combattimenti tra gli eserciti dei due Paesi.
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Il nuovo ciclo di violenze è esploso dopo un incidente lungo la frontiera: secondo fonti thailandesi, uno scontro avrebbe ferito due soldati. È bastato per far saltare un cessate il fuoco già definito fragile e raggiunto dopo gli intensi combattimenti del luglio 2025. Quella tregua era stata favorita dall’intervento diplomatico degli Stati Uniti e del presidente Donald Trump, con un impegno ribadito nella dichiarazione congiunta firmata a Kuala Lumpur il 26 ottobre 2025. Le tensioni, tuttavia, non erano mai rientrate del tutto. Bangkok accusa Phnom Penh di avere posato nuove mine in territorio thailandese; Phnom Penh respinge e denuncia l’uso di artiglieria e raid aerei da parte thailandese. Dopo la rottura, il fronte si è ampliato rapidamente: scambi di colpi in quasi tutte le province di confine thailandesi, ordigni caduti nei pressi dell’ospedale di Phanom Dong Rak, evacuazioni improvvise, sirene dagli altoparlanti dei villaggi. Il ministero della Difesa thailandese sostiene che siano stati lanciati razzi BM-21 dalle postazioni cambogiane; fonti cambogiane accusano invece bombardamenti pesanti attorno al complesso templare di Preah Vihear, patrimonio UNESCO.
Le cifre fornite dai governi mostrano un movimento di popolazione senza precedenti recenti. In Thailandia sono state allestite reti di rifugi in almeno sette province, con oltre 400.000 persone trasferite in centri di accoglienza temporanei, scuole e palestre comunali. In Cambogia, 101.229 persone risultano evacuate e molte sono ospitate da parenti nelle province di frontiera. L’Associated Press segnala la chiusura di circa 700 scuole sul lato thailandese e “centinaia” sul lato cambogiano. Il sistema sanitario thailandese è sotto pressione: sette ospedali hanno sospeso i servizi e oltre 500 pazienti sono stati trasferiti in strutture considerate più sicure. A Surin, Buri Ram, Si Sa Ket e Ubon Ratchathani, palestre e centri comunitari sono stati riadattati con stuoie e coperte; volontari e unità di protezione civile distribuiscono acqua, cibo, medicinali, mentre operatori specializzati offrono assistenza psicologica. Sul lato cambogiano, in Oddar Meanchey e nelle province vicine, migliaia di persone vivono in pagode e campi improvvisati, spesso sotto teli di plastica. Organizzazioni come UNICEF avevano già segnalato dopo i combattimenti estivi le criticità legate a minori, scuole chiuse e carenza di acqua potabile; oggi quelle preoccupazioni risultano amplificate.
Sul piano militare, la ripresa degli scontri mostra due linee parallele: la Thailandia fa ricorso alla propria aviazione, con l’impiego di caccia per “supporto a operazioni difensive”, come confermato da fonti ufficiali e giornalistiche; la Cambogia risponde con artiglieria a saturazione, in particolare i sistemi BM-21 Grad, capaci di lanciare salve di 40 razzi nel raggio di decine di chilometri. Secondo lo stato maggiore thailandese, in una sola giornata sarebbero stati lanciati circa 5.000 razzi. Phnom Penh nega di colpire aree civili. Entrambe le parti rivendicano la legittima difesa e accusano l’altra di avere aperto il fuoco per prima. Sul piano diplomatico, il ministro degli Esteri thailandese Sihasak Phuangketkeow esclude per ora mediazioni esterne, soprattutto se accompagnate da pressioni commerciali. Nei mesi scorsi la questione dei dazi era emersa più volte, fino al richiamo dello stesso Trump alla possibilità di “telefonate decisive”. Oggi Bangkok chiede di distinguere i dossier, sostenendo che un eventuale ritorno al negoziato dipenderà dall’evoluzione della situazione sul terreno.
Per comprendere perché il confine thailandese-cambogiano continui a essere così teso, occorre guardare alla lunga disputa attorno al promontorio di Preah Vihear, dove si trova l’omonimo tempio. Nel 1962 la Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) stabilì che il sito è sotto sovranità cambogiana. Nel 2013 una nuova pronuncia ha confermato l’estensione della sovranità cambogiana a tutto il promontorio, ribadendo l’obbligo di entrambe le parti di tutelare il sito e garantirne l’accesso dal lato cambogiano. Il resto della frontiera resta in larga parte non demarcato, complicazione che deriva dalla cartografia coloniale e dall’assenza di un accordo definitivo. Ogni crisi, in questo contesto, si intreccia con tutte quelle precedenti.
Nei rifugi la quotidianità è frammentata. Alcune famiglie hanno preso documenti e medicinali, altre sono fuggite con ciò che avevano addosso. In una palestra di Surin centinaia di persone dormono su tappetini numerati; i bambini provano a seguire lezioni improvvisate, il personale sanitario distribuisce zanzariere e controlla febbri. La domanda ricorrente è sempre la stessa: quando sarà possibile tornare a casa. Le agenzie delle Nazioni Unite avevano già parlato nei mesi scorsi del rischio di un trauma accumulato dalle comunità: evacuazioni ripetute, scuole chiuse a intermittenza, raccolti abbandonati e animali lasciati indietro. Ogni spostamento impone una perdita di stabilità sociale difficile da recuperare.
Il conflitto ha investito anche lo sport. La Cambogia ha ritirato la propria delegazione dai SEA Games (South-East Asian Games) in corso in Thailandia, citando preoccupazioni per la sicurezza e pressioni dei familiari degli atleti. Una scelta dal forte peso simbolico, che riflette il gelo politico tra i due Paesi mentre Bangkok ospita l’evento.
Nel periodo più teso di luglio, la Malaysia, presidente di turno dell’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations), aveva favorito il cessate il fuoco proponendo un quadro di mediazione regionale. Ora, con gli scontri tornati ad aumentare, la richiesta è di riprendere la dichiarazione congiunta del 26 ottobre e i meccanismi di de-escalation previsti: rimozione delle armi pesanti, sminamento coordinato, canali diretti di comunicazione tra i comandi locali. Anche il Segretario generale dell’ONU ha sollecitato moderazione, protezione dei civili e accesso umanitario. Indicazioni essenziali, che però dipendono dalla volontà delle parti di considerarle obblighi e non concessioni temporanee.
Le stime sui civili in fuga restano in evoluzione, ma si parla di oltre mezzo milione di persone. Le vittime sono difficili da quantificare: fonti istituzionali e giornalistiche indicano tra 11 e 14 morti e decine di feriti, dati parziali e soggetti a revisione. Sul lato thailandese risultano 700 scuole chiuse e sette ospedali con servizi sospesi, oltre a numerosi pazienti trasferiti. Sul lato cambogiano molte scuole sono state trasformate in rifugi. L’impiego di caccia e di sistemi BM-21 è stato confermato da più fonti, mentre verifiche indipendenti restano complesse per ragioni di sicurezza.
Il tempio di Preah Vihear continua a essere il centro simbolico del contenzioso. Per la Cambogia rappresenta un elemento identitario che il mondo ha riconosciuto come patrimonio universale; per molti thailandesi è il segno di una frontiera percepita come ingiusta. La CIJ ha definito la sovranità cambogiana sul promontorio, ma l’assenza di una delimitazione condivisa del resto della frontiera alimenta una combinazione di simboli, pressioni politiche interne e necessità strategiche che si riattivano a ogni incidente.
Le priorità evidenziate dalle organizzazioni internazionali riguardano la protezione dei civili, la stabilizzazione dei servizi essenziali nei rifugi e la ricostruzione dei canali di comunicazione militare. La dichiarazione di Kuala Lumpur indica procedure concrete su cui tornare: sminamento, ritiro delle armi pesanti, monitoraggio terzo delle violazioni. La gestione del commercio è un altro nodo. L’intreccio tra dazi e crisi militare rischia di alimentare la spirale delle tensioni. La linea del ministro Sihasak – tenere distinti i temi – fotografa una necessità pratica.
Questa crisi è anche un segnale per l’intero Sud-Est asiatico. Le frontiere ereditate dal periodo coloniale continuano a essere aree instabili; la combinazione di artiglieria a lungo raggio, droni e informazioni non verificate abbassa la soglia di reazione; gli attori internazionali possono contribuire, ma non sostituirsi alla volontà politica dei governi locali. Senza strutture di cooperazione transfrontaliere solide, ogni tregua resta provvisoria e legata all’evoluzione di un singolo incidente. Intanto, in palestre e pagode, le famiglie attendono. Imparano a distinguere i suoni dei droni da quelli dei razzi e a preparare zaini essenziali per spostamenti rapidi. La vita ordinaria non è scomparsa, è sospesa. Più dura la sospensione, più complesso sarà ricostruire ciò che è stato interrotto.
Fonti utilizzate: Le Monde, AP News, Reuters, Al Jazeera, The Straits Times, Corte Internazionale di Giustizia, Nazioni Unite, UNICEF, Ministero degli Esteri thailandese, The Nation Thailand.
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