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Italia avvelenata. Respiriamo "veleni" ogni giorno e non ce ne accorgiamo. Alessandria la città più inquinata

Un’inchiesta che gela il sangue: l’aria italiana è contaminata dagli “inquinanti eterni”. Il Piemonte epicentro nazionale: Alessandria guida da sola un disastro ambientale senza precedenti. Greenpeace: “Così mettiamo a rischio salute, clima e futuro dei cittadini”

Italia avvelenata. Respiriamo "veleni" ogni giorno e non ce ne accorgiamo

Italia avvelenata. Respiriamo "veleni" ogni giorno e non ce ne accorgiamo

Si pensava che il dramma dei PFAS fosse un affare d’acqua, una storia confinata nelle falde del Veneto, nelle tubazioni dell’Alessandrino, nei pozzi di piccoli comuni costretti a contare gli anni in cui i cittadini hanno bevuto sostanze che non si degradano mai. Per mesi l’Italia ha discusso della prima mappa nazionale realizzata da Greenpeace Italia, quella che rivelava come il 79% dei campioni di acqua potabile analizzati in 235 città contenesse PFAS: sostanze che entrano nel corpo e vi restano per anni, interferiscono con il sistema endocrino, aumentano il rischio di malattie tiroidee e, cosa ancora più inquietante, sono associate — come ricorda lo stesso rapporto — anche ad alcune forme tumorali.

Ma quella mappa, oggi, sembra quasi un prologo. L’anteprima di una storia ancora più oscura. Perché, come documenta l’ultima inchiesta dell’Unità Investigativa di Greenpeace Italia, i PFAS non li beviamo soltanto: li respiriamo. Finiscono nei nostri polmoni. Si spostano nell’aria, ricadono sui terreni, arrivano nelle piogge e tornano nell’acqua. Sono un ciclo chimico che non ha bisogno del nostro consenso per continuare. E che, soprattutto, nessuna legge italiana vieta davvero.

Tutto parte da un archivio europeo poco noto al grande pubblico, ma fondamentale per chiunque si occupi di ambiente: il Registro PRTR (Pollutant Release and Transfer Register). Qui oltre quattromila stabilimenti industriali italiani devono comunicare le emissioni di sostanze tossiche. Basta sfogliare quei dati per scoprire che, tra il 2007 e il 2023, l’Italia ha immesso in atmosfera 3.766 tonnellate di gas fluorurati — gli F-gas — che, nella grande maggioranza dei casi, sono proprio PFAS o loro derivati diretti. E sono loro, gli F-gas, a rappresentare da soli il 60% di tutte le emissioni di PFAS nell’Unione Europea. Numeri che da soli basterebbero a delineare una crisi ambientale nazionale. Ma è la loro distribuzione geografica a trasformare l’allarme in emergenza.

Il 76% delle emissioni italiane di F-gas, infatti, proviene da una sola regione: il Piemonte. E, dentro il Piemonte, da un solo territorio: Alessandria. Da sola, Alessandria totalizza 2.828 tonnellate di emissioni tra il 2007 e il 2023.

È un caso unico in Europa: nessun altro comune del continente presenta un profilo emissivo nemmeno lontanamente paragonabile. A Spinetta Marengo, alle porte della città, si trova l’unico stabilimento italiano che ancora oggi produce PFAS: quello della ex Solvay, ora Syensqo. Lo stabilimento che, nel solo 2023, è responsabile del 55% delle emissioni di F-gas dell’intero Paese.

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I numeri raccolti da Greenpeace sono impressionanti: per 16 anni consecutivi, l’ex Solvay ha emesso da sola più della metà dell’inquinamento nazionale da PFAS in atmosfera. Il calo registrato dal 2019-2020 non tranquillizza gli esperti: si deve in parte ai lockdown che hanno rallentato la produzione durante la pandemia, e in parte alla progressiva sostituzione dei PFAS con una molecola nuova, il C604, che l’azienda definisce “non bioaccumulabile” ma che, secondo la scienza indipendente, potrebbe essere addirittura più pericolosa dei composti che va a rimpiazzare.

Uno studio condotto dall’Università di Padova e dall’IRSA-CNR ha mostrato infatti che il C604 altera in maniera significativa i processi biologici della vongola filippina, in alcuni casi in modo più pesante del PFOA, uno dei PFAS più noti e tossici. La stessa associazione Medicina Democratica ritiene che il C604 abbia una tossicità acuta identica a quella dei PFAS storici e che manchino studi credibili sulla sua tossicità a lungo termine.

Non bastasse, tra giugno e luglio 2024, la Provincia di Alessandria ha imposto a Syensqo lo stop totale per un mese della produzione del C604 dopo aver rilevato livelli eccessivi di inquinamento nel suolo e nelle acque attorno allo stabilimento.

Un fatto che da solo dà la misura della gravità della situazione.

Ma Alessandria non è sola. Il rapporto segnala anche altri comuni con emissioni elevate: Venezia, Rosignano Marittimo, Agrate Brianza, Portoscuso, Catania, Verres, Avezzano, Mantova, Alba — tutti citati nella classifica nazionale che mostra come l’Italia sia attraversata da un filo rosso invisibile ma tossico, una catena di emissioni che si allunga dal Nord al Sud senza risparmiare nessuna area industriale del Paese.

Un filo che lega industrie chimiche, metallurgiche, petrolchimiche, elettroniche, e che include anche realtà come Versalis(il braccio chimico dell’ENI), Lfoundry, Alkeemia, STMicroelectronics.

Questa rete di emissioni non rimane nell’aria come semplice smog. Gli F-gas, una volta dispersi, possono trasformarsi in acido trifluoroacetico (TFA), un PFAS ultracorto particolarmente mobile e persistente. Il TFA non si degrada, viaggia con le piogge, entra nei corsi d’acqua e finisce nell’acqua potabile. L’agenzia ambientale tedesca ha chiesto all’ECHA di classificare il TFA come tossico per la riproduzione, preoccupata dalla sua diffusione crescente e dalla sua potenziale capacità di accumularsi negli ecosistemi e negli organismi viventi. Greenpeace, da parte sua, ha trovato TFA in sei acque minerali italiane su otto analizzate nel 2025.

Significa che la contaminazione non riguarda solo aree industriali o corsi fluviali: riguarda direttamente i prodotti che compriamo al supermercato e che portiamo in tavola ogni giorno.

La presenza dei PFAS nell’aria, poi, è particolarmente insidiosa perché la diffusione atmosferica permette agli inquinanti di depositarsi ovunque, come riconosce anche l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA): i PFAS si diffondono tramite acque reflue e tramite emissioni aeree, e quest’ultima componente contribuisce a creare concentrazioni elevate di sostanze tossiche nei terreni attorno agli impianti, con conseguenze dirette sul cibo — sia vegetale sia animale — e sulla nostra salute.

E tutto questo avviene in un Paese che non ha ancora una legge che vieti la produzione e l’uso dei PFAS. Non esiste un tetto nazionale alle emissioni in aria. L’unica regolamentazione è quella europea, il Regolamento F-gas del 2014 aggiornato nel 2024, che prevede una progressiva riduzione dell’uso di molti gas fluorurati entro il 2030, ma che — come denuncia Greenpeace — non comprende tutti i gas fluorurati che sono anche PFAS.

È come se si tentasse di svuotare il mare con un secchio bucato.

A complicare il quadro, c’è il fatto che gli F-gas non sono solo pericolosi per la salute: sono anche potentissimi gas serra. L’HCFC-22, per esempio, ha un potenziale di riscaldamento globale pari a 5.280 volte quello della CO₂. E secondo ISPRA, negli ultimi anni le emissioni complessive di gas fluorurati come gas climalteranti sono in forte crescita in Italia, nonostante le politiche di riduzione.

Significa che ogni tonnellata rilasciata in aria non compromette soltanto i polmoni: compromette il clima.

Eppure, come ricorda Alessandro Giannì di Greenpeace Italia, «per sostituire i gas fluorurati nei processi industriali esistono già alternative disponibili, studiate anche in Italia da ISPRA. Potremmo eliminarli molto più velocemente con uno sforzo congiunto di industria e istituzioni».

Tutto questo ci porta a una domanda inevitabile: quanto a lungo possiamo permettere che gli “inquinanti eterni” continuino a entrare nei nostri polmoni semplicemente perché nessuno ha ancora trovato il coraggio politico di fermarli? Il rapporto “Respirare PFAS” non chiede allarmi, ma decisioni. E mostra un Paese sospeso, dove i numeri gridano emergenza, la scienza conferma i rischi, le mappe mostrano la diffusione, e le emissioni continuano.

L’Italia è davanti a un bivio. Continuare a respirare ciò che non è fatto per essere respirato, o finalmente decidere che la nostra aria, la nostra acqua, il nostro cibo e il nostro futuro meritano qualcosa di meglio dei residui eterni di un modello industriale che da decenni produce ricchezza per pochi e rischi per tutti.

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