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Pan Chiruzzi, il Falco della Basilicata: J-Ax racconta il "Solista del Kalashnikov" in "Non Aprite Quella Podcast" su Spotify

Dalla Basilicata alla Torino operaia: il rapinatore che affascinò anche il mondo del podcasting

Pan Chiruzzi, il Falco della Basilicata: J-Ax racconta il "Solista del Kalashnikov" in "Non Aprite Quella Podcast" su Spotify

Pan Chiruzzi, il Falco della Basilicata: J-Ax racconta il "Solista del Kalashnikov" in "Non Aprite Quella Podcast" su Spotify

Su Spotify, nel 2024, un anno prima che la morte lo portasse via, il celebre podcast di J-Ax, Non Aprite Quella Podcast, aveva dedicato un episodio di 45 minuti a Pancrazio Chiruzzi, il rapinatore lucano noto come Solista del Kalashnikov.

Una scelta che allora sembrava soltanto un’incursione pop nella storia criminale italiana e che oggi, dopo la sua scomparsa del  marzo 2025, suona come un'ombra che precede quel che verrà.

Perché la vita di Chiruzzi è una di quelle biografie che ritornano sempre, come se il Paese non avesse mai smesso di specchiarsi nelle sue contraddizioni: l’emigrazione che devasta comunità intere, la discriminazione che diventa destino, l’ingiustizia sociale che qualcuno trasforma in rivolta individuale. Con modalità sbagliate, certo. Ma figlie del contesto che le ha generate.

Il podcast di J-Ax parte da Bernalda, Basilicata, anni ’50. Una terra impoverita dalle promesse mancate dell’Unità d’Italia, dove i contadini aspettavano le terre promesse da Garibaldi e ricevevano invece nuove tasse e vecchi padroni. Lì nascono i Chiruzzi, famiglia perbene, proprietaria di una delle prime aziende di autobus della regione.

Finisce tutto quando il nonno, sconvolto dalla morte accidentale di un pedone, si lascia morire di crepacuore. È il primo cedimento di una catena che porterà la famiglia lontano, a Torino, come migliaia di meridionali che negli stessi anni varcano l’Appennino con le valigie di cartone.

Pancrazio Chiruzzi

A Torino, però, il riscatto non arriva. Arriva il gelo. Arrivano le scritte “non si affitta ai meridionali”.

Arriva quel razzismo quotidiano che il podcast racconta con sarcasmo amaro, mentre J-Ax e compagni leggono le parole autobiografiche di Chiruzzi: Mi chiamavano Napoli. Io precisavo Basilicata. Ridevano. Poi ho smesso di precisare.

È qui che si forma la corazza del futuro rapinatore. Pancrazio è grande, robusto, e capisce che per non essere schiacciato bisogna colpire. Non a caso, il suo primo istinto è sempre scegliere il più forte del branco. Una forma di sopravvivenza, prima ancora che un preludio alla criminalità.

Il passo successivo non è l’istinto delinquenziale, ma la constatazione che la fabbrica non offre alcuna identità. È il luogo dove i meridionali sono braccia da spremere e scartare. Con l’onestà non fai indipendenza economica, dirà anni dopo. E allora, come molti ragazzi di periferia imprigionati in un sistema che li classifica prima ancora di vederli, sceglie un’altra strada: le batterie di rapinatori, micro–organizzazioni che si muovono con una disciplina che il podcast definisce quasi coreografica.

I primi colpi sembrano usciti da un film in bianco e nero: cassa continua, tabaccherie, uffici postali. La pistola c’è, ma resta quasi sempre zitta. La violenza, in quei primi anni, Chiruzzi la rifugge, almeno quella letale. Non ho mai avuto bisogno di sparare, scriverà.

Preferisce la forza fisica, la sorpresa, la pianificazione. È qui che si costruisce la sua "leggenda": il rapinatore che tratta ogni colpo come un’equazione, che seleziona i complici come un allenatore ossessivo, che si cambia d’abito in un pied-à-terre per non farsi scoprire dai genitori convinti che lavori in fabbrica.

Il passaggio in carcere, inevitabile, non lo spezza. Lo rafforza, dirà. Al Ferrante Aporti ribalta perfino la gerarchia interna del reparto minorile quando, durante una perquisizione punitiva, affronta l’educatore che gli ha gettato la giacca in un sacco: Quella giacca l’ho comprata io, pezzo di merda. Gli altri detenuti lo seguono. Chiruzzi capisce che la leadership non gli fa paura. Le botte, neanche. Anzi, il sistema carcerario lo conferma nella sua convinzione: non esistono riforme possibili per chi nasce ai margini, esiste soltanto l’autodeterminazione, anche criminale.

Uscito dalla galera, prova ancora la strada della fabbrica. Un foglio di lamiera che quasi gli sfonda l’occhio diventa il simbolo del suo rifiuto definitivo: meglio il bandito che l’operaio schiavo, scriverà. E allora si dedica al mestiere con metodo da manager ante litteram. Tre rapine a settimana, migrazioni continue tra Piemonte, Liguria, Veneto, Lombardia. Fino alle trasferte internazionali: Francia, Austria, Germania e soprattutto Svizzera, dove nel 1987 entra in una filiale della UBS e porta via il corrispettivo di 5 miliardi di lire. Ne uscirà indenne grazie a un vizio procedurale. Gli basterebbe questo per ritirarsi, ma continua. Insegue la perfezione, non il denaro. E quando decide di fermarsi, si rovina da solo: per lealtà verso i compagni promette di fare ancora una rapina per ciascuno di loro. Una promessa che, come racconta il podcast, è l’errore che gli spezza la vita.

La puntata non arriva alla parte finale della sua parabola — l’omicidio dell’USL di Saluzzo, il processo infinito, la condanna del 2004 che lui ha sempre negato — ma ne contiene già le premesse: un uomo che ha costruito la propria identità sulla sfida alle regole e sulla convinzione di essere più intelligente dell’intero sistema. Certe volte lo era davvero. Altre no.

Riascoltata oggi, quella puntata del 2024 somiglia a un requiem involontario. Non glorifica Chiruzzi, non lo assolve, non lo trasforma in un eroe. Semplicemente mostra come un Paese intero abbia contribuito a generare figure così: rapinatori senza sangue, forse; criminali senza redenzione, certamente; prodotti perfetti di una frattura sociale che nessuno ha mai voluto sanare.

E il fatto che una delle voci più note della musica pop italiana abbia sentito il bisogno di raccontarlo prima della sua morte dice molto più di quanto sembri: nel fondo della nostra storia c’è ancora spazio per personaggi che incarnano ciò che non abbiamo mai risolto.

Pancrazio Chiruzzi è morto a 72 anni. Viveva a Cavagnolo, nel Chivassese. Ma la sua parabola continua a galleggiare nella memoria pubblica. Come un monito. Come una domanda aperta. O come quella figura che il podcast ha riportato alla luce con un misto di ironia, stupore e inquietudine: un uomo che ha rubato tutto tranne il proprio codice. E che a modo suo non ha mai smesso di rispettarlo.

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