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03 Dicembre 2025 - 11:28
Oggi si celebra e si sopporta: il paradosso della Giornata Mondiale della Disabilità
Ogni 3 dicembre, il mondo celebra la Giornata Mondiale delle Persone con Disabilità, istituita dalle Nazioni Unite per promuovere diritti, dignità e benessere. Un giorno di commemorazioni solenni, dichiarazioni di principio, hashtag istituzionali e promesse di progresso.
Eppure, mentre governi e organizzazioni internazionali si affannano a parlare di “società inclusive”, la realtà quotidiana delle persone con disabilità — soprattutto donne — resta segnata da un abilismo sistemico, capillare e strategico. Un abilismo che non si limita a discriminare: mina la credibilità, delegittima la parola, trasforma ogni denuncia in sospetto. E nei casi più gravi, contribuisce a danneggiare irreversibilmente la salute mentale di chi vive in un corpo fragile, o semplicemente considerato tale.
Nel mondo, oltre un miliardo di persone convive con una forma di disabilità, pari al 15% della popolazione globale. In Italia, le stime più recenti parlano di 7,6 milioni di cittadini con disabilità, molti dei quali affrontano quotidianamente ostacoli nell’accesso all’istruzione, al lavoro, ai servizi essenziali. E soprattutto, affrontano l’esclusione più subdola: quella dalla credibilità sociale.
Le celebrazioni del 2025 richiamano il recente Secondo Vertice Mondiale per lo Sviluppo Sociale tenutosi a Doha, un appuntamento nel quale i leader mondiali hanno ribadito che l’inclusione delle persone con disabilità è condizione imprescindibile del progresso. Ma tra gli impegni internazionali e la vita reale corre un fossato profondo: quello tra la retorica dell’inclusione e la pratica quotidiana dell’abilismo.
È proprio in questo scarto che si genera la violenza invisibile che, giorno dopo giorno, compromette la salute mentale delle persone con disabilità: un logoramento costante fatto di sfiducia istituzionale, minimizzazione del dolore, negazione della parola e della dignità. Un prezzo psicologico enorme, che nessuna giornata celebrativa — da sola — può riparare.
L’idea che una persona con disabilità sia meno affidabile, meno “lucida”, meno capace di percepire e riferire un abuso è il carburante di un circuito pericoloso. Questo pregiudizio non è un semplice stereotipo: è una struttura, una lente culturale e politica che consente alla società di dubitare della vittima e di proteggere — attivamente o per inerzia — chi la violenza la compie.
Secondo un’analisi internazionale, le persone con disabilità hanno un rischio di subire violenza sessuale più del doppio rispetto alla popolazione generale (odds ratio ~2,27). Un dato che, da solo, basterebbe a indicare una crisi.
Le donne con disabilità sono le più colpite: “sproporzionalmente esposte”, secondo la più recente analisi del Parlamento Europeo. In Italia, il quadro è altrettanto drammatico: 540 reati in un solo anno contro donne con disabilità — quasi un reato e mezzo al giorno — secondo le statistiche del Ministero dell’Interno.
E anche queste cifre, già inquietanti, rappresentano solo ciò che riesce a emergere. La maggior parte resta sommersa: schiacciata dalla paura di non essere creduta.
Quando si parla di donne con disabilità, la retorica dominante insiste sulla necessità di “dare voce alle vittime”. Ma ciò che raramente viene detto è che, per molte di loro, tacere non è una scelta: è una condizione di sopravvivenza.
Chi dipende da un’altra persona per lavarsi, vestirsi, uscire di casa o solo per girarsi nel letto, vive all’interno di un equilibrio delicatissimo: denunciare può significare perdere tutto quello che permette di vivere — non vivere bene, semplicemente vivere.
La violenza, spesso, è commessa proprio da chi garantisce questa sopravvivenza: un familiare, un partner, un caregiver. Ed è qui che il silenzio assume un ruolo paradossale: non protegge dalla violenza, ma protegge dal baratro sociale che seguirebbe alla denuncia.
Denunciare, infatti, può significare finire in comunità alloggio, RSA, strutture istituzionali dove la persona viene separata dal proprio ambiente, dalla propria rete, dalla propria autonomia residua. Significa diventare “paziente” invece di restare persona, “utente” invece di cittadina.
Molte donne con disabilità — anche quando subiscono abusi brutali — devono pesare sulla bilancia ciò che qualunque altra donna non dovrebbe mai essere costretta a valutare: preferisco rischiare la vita ogni giorno, o preferisco perderla del tutto attraverso l’istituzionalizzazione?
Il silenzio, in questo contesto, non è fragilità: è l’unico margine di controllo rimasto.
La violenza agisce con la velocità di un colpo. Lo Stato risponde con la velocità di una ragnatela.
Per una persona con disabilità, denunciare significa entrare in una macchina giudiziaria che non è stata progettata per lei: uffici inaccessibili, tempi infiniti, documentazione complessa, mancanza di interpreti, mancanza di supporto psicologico, e soprattutto mancanza di riconoscimento.
Le forze dell’ordine spesso non sono formate per accogliere una denuncia da parte di una persona con disabilità. La reazione tipica è minimizzare: “sarà stato uno stress”, “forse ha frainteso”, “magari ha interpretato male”.
La persona denuncia una violenza; l’istituzione denuncia la sua presunta inaffidabilità.
Dopo la denuncia, il vuoto:
Nel frattempo, la vittima resta dove era: nello stesso luogo, con gli stessi rischi, con la stessa dipendenza. Il trauma non si interrompe: si sedimenta.
Ogni giorno senza risposta è una forma di revittimizzazione. Ogni mese senza tutela è una violenza istituzionale.
E mentre lo Stato decide se credere o meno alla vittima, la vittima deve continuare ad affidare la propria sopravvivenza a qualcuno che potrebbe averne abusato.
Per chi subisce violenza, la giustizia lenta non è giustizia: è un moltiplicatore del dolore.
La violenza sulle persone con disabilità non è fatta solo di grandi eventi traumatici. È fatta di mille piccoli tagli quotidiani, invisibili agli occhi di chi non li subisce.
Una spinta per strada. Un insulto al lavoro. Uno sguardo disgustato al pronto soccorso. Un treno non accessibile. Un medico che parla al caregiver invece che alla persona. Un passante che commenta “poverina, chissà cosa capisce”. Uno stupro considerato una concessione caritatevole.
Ognuno di questi episodi è minuscolo agli occhi degli altri. Ma alla lunga diventa trauma complesso, una forma di violenza psicologica cumulativa che logora la percezione di sé.
Quando la persona trova il coraggio di denunciare un episodio violento — specialmente se commesso da uno sconosciuto — la risposta sociale è spesso peggio dell’episodio stesso: “non sarà stata poi una tragedia”, “magari si è impressionata”, “non è il caso di esagerare”.
Così la vittima impara una lezione crudele: il suo dolore è un fastidio per gli altri. E mentre cerca di elaborare un trauma, ne arriva un altro, e un altro ancora, fino a creare un tunnel psicologico dove l’uscita non è mai visibile.
La somma di queste violazioni quotidiane produce ansia cronica, depressione, perdita di autostima, disturbi del sonno, ipervigilanza. Tutto questo senza che nessuno lo riconosca come danno, perché l’abilismo — a differenza di altre forme di discriminazione — si mimetizza nella normalità.
La società ama l’accessibilità perché è un obiettivo architettonico, misurabile, fotografabile, facilmente comunicabile. Una rampa, un ascensore, un bagno accessibile: tutto questo guarda bene nelle campagne istituzionali.
Ma l’accessibilità materiale è un guscio vuoto se non è accompagnata da accessibilità relazionale, accessibilità istituzionale, accessibilità emotiva.
Una persona può entrare in un tribunale grazie a una rampa, ma se all’interno nessuno crede alla sua denuncia, quella rampa è un corridoio verso il nulla. Può partecipare a un’audizione grazie a un ascensore, ma se chi ascolta parte dal presupposto che sia meno affidabile, meno lucida, meno autonoma, quell’ascensore diventa una trappola di vetro. Può raggiungere un ufficio pubblico, ma se gli operatori sociali trattano la disabilità come una prova di incompetenza, l’accesso è un dettaglio estetico.
L’inclusione reale inizia quando una persona con disabilità viene considerata credibile, affidabile, capace di autodeterminarsi, degna di protezione senza condizioni.
Finché questo non accade, l’accessibilità rimane un maquillage politico: una patina progressista che non sfiora minimamente le strutture profonde della discriminazione.
Perché non basta aprire le porte, se dentro quelle stanze continua a regnare la stessa, antica, ostinata violenza culturale.
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