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Ombre su Torino

Albertino, il bambino che denunciò il mostro di Villa Azzurra

Dalla biglia ingoiata a nove anni all’inferno di Villa Azzurra, dalle torture dell’“elettromassaggio” al mondo dell’estrema sinistra, fino alla morte a 31 anni: la storia sconvolgente di Albertino, il primo ad avere il coraggio di denunciare Giorgio Coda, lo psichiatra che Torino non ha mai dimenticato

Accadde oggi - 2 dicembre 1977. I terroristi si travestono da giustizieri.
Albertino è un bambino di nove anni che abita a Cerrina Monferrato, precisamente nella frazione di Montaldo, in provincia di Alessandria. È il 3 agosto 1967 e sta litigando con un compagno di scuola, un bulletto. Motivo del contenzioso una biglia di vetro, di quelle con cui giocano i bambini. Il bulletto vuole quella biglia ma Albertino non molla. Trova un solo modo per non dargliela vinta: se la mette in bocca e la ingoia.
Sembra una sciocchezza, ma Albertino finisce all’Istituto psicomedicopedagogico Villa Azzurra di Grugliasco. Il direttore della struttura si chiama Giorgio Coda ed è uno psichiatra.
Nel 1968, Maria Repaci, un’assistente sociale, consegna al presidente del Tribunale dei minori una relazione scaturita dalle rivelazioni proprio di Albertino. Il bambino riferisce di essere stato legato al letto per settimane, ma, soprattutto di avere subito, per mesi, il cosiddetto “elettromassaggio”. Scosse elettriche, alla testa e ai genitali per punire e controllare ogni manifestazione di irrequietezza.
Passano due anni e l’Espresso pubblica la foto di una bambina di sette anni nuda, legata a un letto, spaventata a morte. Anche lei è “un’ospite” di Villa Azzurra.

Esplode uno scandalo nazionale. Escono fuori testimonianze di decine di bambini. Elettroshock senza anestesia, pazienti tenuti fermi dagli infermieri a cui saltano i denti, che si defecano e si urinano addosso. Un ragazzino racconterà di essere stato legato a un termosifone, non sa manco lui quanto tempo. Una tortura per le vittime, un normale “trattamento sanitario” per il professor Coda.
Passa qualche mese e lo psichiatra finisce a processo.
Viene accusato di abuso dei mezzi di correzione per aver effettuato oltre 5000 “elettromassaggi”. In primo grado, nel 1974, prende cinque anni ma, in appello, essendo stato giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Torino, viene deciso che non può essere giudicato dallo stesso organo per il quale aveva lavorato. La pratica finisce in Cassazione e i reati cadono in prescrizione. Coda non va dentro neanche per un giorno.
Lo psichiatra viene allontanato dalla clinica e apre un ambulatorio in via Casalis 39, quartiere Cit Turin.
Il 2 dicembre 1977, intorno alle 18,40, si presentano in quattro. Suonano presentandosi come poliziotti e rinchiudono la segretaria in bagno. Irrompono nella stanza di Coda a pistole spianate e lo riempiono di calci e pugni. Lo legano a un termosifone e gli mettono un cartello al collo con su scritto “Il proletariato non perdona i suoi torturatori.”. Passa un attimo e gli piantano in corpo due colpi alle spalle (uno per lato) e uno che gli spappola il ginocchio. Viene ricoverato alle Molinette e se la caverà in un mese.
A La Stampa arriva la rivendicazione a nome Squadre Armate Proletarie, sigla collegata a Prima Linea. Tanti, però, a Torino, sospettano che sia un’azione per vendicare direttamente Albertino.
Perché il bimbo, nel frattempo, è cresciuto e in quegli anni frequenta diversi circoli della sinistra extraparlamentare. È finito in galera accusato di essere responsabile, insieme ad altri, del rogo dell’Angelo Azzurro e ci resterà per 2 anni e 7 mesi.
Qui si dissocia dalla lotta armata (un suo appunto in cui si legge “Fate la storia senza di me” darà il nome a un omonimo documentario a lui dedicato) ma incontra l’eroina. Uscito dal carcere tenta di rifarsi una vita, diventando addirittura collaboratore di Giuliano Ferrara come autore del programma televisivo Il testimone.
Alberto Bonvicini durerà purtroppo poco, contraendo l’AIDS nel 1988 e morendo, a 31 anni, nel 1991.
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