Cerca

Attualità

Due tir incastrati sul Ponte Preti: l’immagine di un fallimento nazionale

Sei anni di carte, proteste e promesse: e il Canavese è ancora in coda sul viadotto del 1920

Due tir incastrati sul Ponte Preti: l’immagine di un fallimento nazionale

Due tir incastrati sul Ponte Preti: l’immagine di un fallimento nazionale

Quella foto — scattata ieri pomeriggio, 1° dicembre 2025, sul vecchio e stanco Ponte Preti — dice tutto prima ancora che si inizi a scrivere. Due camion incastrati, uno di fronte all’altro, immobili come statue di un’Italia che non sa più muoversi. Le auto in coda, gli sguardi rassegnati, il solito tempo perso su quella lingua d’asfalto che da decenni collega (si fa per dire) il Canavese al resto del mondo. È un fermo immagine perfetto: il ponte che dovrebbe unire si trasforma nell’ennesimo imbuto, in una trappola che restituisce ai cittadini l’unica certezza rimasta — quella dell’attesa.

Da qui bisogna partire: da uno scatto quotidiano, quasi banale nella sua tragicità, che riassume la distanza siderale tra le promesse e i fatti. Perché mentre quei due camion si guardano come sfidanti incapaci di passare, la politica continua a ripetere che il nuovo ponte “si farà”, “è strategico”, “è urgente”, “è tutto pronto”. Ma siamo al 2 dicembre, e mancano quattro settimane alla scadenza del 31 dicembre 2025, quella entro la quale la Città Metropolitana dovrebbe aggiudicare i lavori. Il condizionale è d’obbligo, perché a oggi non c’è alcuna certezza che ciò accada. Non c’è perché manca ancora il documento più banale, più elementare, più assurdo da non trovare: la graduatoria del MIT, il foglio fantasma senza il quale l’intero finanziamento resta sospeso.

Ed è esattamente in questo divario — tra la scena del traffico bloccato e la burocrazia che non firma — che si misura la credibilità delle istituzioni. Un ponte che cade a pezzi e un Paese che sembra incapace persino di dire chi deve pagare per rifarlo. I due camion incastrati non sono solo traffico: sono metafora, sono denuncia, sono una domanda senza risposta.

Il paradosso è che non stiamo parlando di un’opera annunciata ieri. Il nuovo Ponte Preti è sulla bocca dei politici da anni, per restare alla storia recente dal 2019, quando fu approvato un piano regionale da 135 milioni destinato a mettere mano a 32 ponti piemontesi.

Di quei 135, 66,1 milioni spettano alla Città Metropolitana di Torino, dentro cui rientra anche il nuovo viadotto tra Strambinello e Baldissero. Doveva essere un intervento rapido, inevitabile, quasi scontato: il ponte del 1920 era già allora considerato obsoleto, stretto, pericoloso. Bastava vedere un camion incrociarne un altro per capire che da lì non si sarebbe passati indenni a lungo.

Nel frattempo, però, il mondo reale e quello amministrativo hanno preso strade opposte. Le carte sono state pronte, le progettazioni completate, gli importi aggiornati. Il costo dell’opera è salito da 19,5 a 25,5 milioni, complice il rincaro dei materiali e l’obbligo di realizzare una struttura in acciaio al posto del cemento armato. La Città Metropolitana ha predisposto documenti, integrazioni, revisioni. I tecnici hanno lavorato, i Comuni hanno sollecitato, i sindaci hanno occupato il ponte più volte, trasformandolo nel palcoscenico della loro frustrazione civile.

Eppure nulla si è mosso davvero. Il 2024 è passato senza che il Ministero concedesse proroghe. Per settimane sembrò tutto perduto. Poi, nel febbraio 2025, nel cuore del decreto Milleproroghe, arrivò l’emendamento “salva-ponti”: nuova scadenza al 31 dicembre 2025. Una boccata d’ossigeno che illuse per qualche mese che il percorso fosse finalmente in discesa.

Solo che non è andata così. Perché nella vicenda del Ponte Preti c’è sempre un ostacolo nuovo, sempre una carta che manca, sempre un tassello che scompare nei corridoi romani. E così si arriva a fine novembre, quando in Regione Piemonte va in scena un Question Time surreale, in cui il consigliere Alberto Avetta chiede alla Giunta di spiegare il perché di questo ennesimo stallo. La risposta della Regione — se possibile — è ancora più inquietante della domanda: la graduatoria del Ministero delle Infrastrutture non c’è. Non è stata pubblicata. Forse è ferma al MEF. Forse qualcuno deve firmare. Forse. La certezza è che nessuno sa nulla.

E allora quelli dell’immagine non sono due camion incastrati: è un intero territorio incastrato. Tra annunci, conferenze stampa, sopralluoghi, rassicurazioni, impegni solenni. Nel frattempo, tra Strambinello e Baldissero, si continua a viaggiare a passo d’uomo, a pregare che non arrivi un tir nell’altro senso. E ogni volta che succede, ogni volta che il traffico si blocca, ogni volta che un autista scende incredulo perché non riesce a passare, il ponte ricorda a tutti quanto sia urgente il suo rifacimento.

È qui che il quadro si allarga: il Canavese è stanco, e non da oggi. Stanco delle promesse, delle proroghe, delle competenze che rimbalzano tra enti. Stanco di sentirsi dire che “i fondi ci sono”, salvo scoprire che non c’è l’atto che li rende utilizzabili. Stanco della narrativa istituzionale che parla di monitoraggi, tavoli tecnici, pressioni costanti verso Roma, mentre nel mondo reale — quello della foto — i camion restano fermi perché lo spazio non basta.

E allora sì, quella scena di ieri è più di un episodio di viabilità. È una radiografia di questi anni. È l’Italia che deroga ma non decide, che proclama ma non costruisce. È l’ennesima dimostrazione che la distanza tra le parole e l’asfalto è ormai abissale. Il ponte è diventato simbolo di una promessa che non si materializza mai, una metafora collettiva di ciò che succede quando la burocrazia diventa più solida del cemento che dovrebbe sostituire.

Nelle ultime settimane l’assessore regionale Marco Gabusi ha elencato in Commissione una lista interminabile di attività: rimodulazioni, ricalcoli, recuperi di risorse, redistribuzioni, richieste formali, solleciti. Un lavoro che sulla carta appare gigantesco. Ma la carta non basta più. Perché senza l’atto del MIT, senza la proroga che Avetta chiede e che si fa ogni giorno più inevitabile, il rischio è che dal 1° gennaio 2026 si riparta da zero. Un azzeramento che sarebbe uno schiaffo non solo politico, ma sociale, civile, culturale.

Intanto il ponte resta lì: stretto, fragile, intasato. L’Italia dei ponti che non cadono ma non si rifanno, che oscillano tra decreti e rinvii. Il Canavese continua a passare per quel viadotto come si passa su un confine: sperando che tutto vada bene, sperando che il camion dall’altra parte rallenti, sperando che l’incastro non diventi incidente.

La foto di ieri è un atto d’accusa. Un promemoria. Un simbolo. È la prova materiale che, nel 2025, una delle arterie più importanti del territorio è ancora la stessa di cinquant’anni fa, con gli stessi problemi di sempre e una sola differenza: oggi le promesse non bastano più.

Il tempo è finito. La scadenza incombe. E il ponte, come quei due camion, resta fermo. In attesa che qualcuno, finalmente, decida di farlo ripartire davvero.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori