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Giuli a Torino: dittonghi, baccalà e sogni di un’Italia “intiera”

Il ministro della Cultura sbarca tra La Stampa e il Circolo dei lettori, denuncia segnali “al limite dell’eversione”, pranza con i meloniani e auspica un Paese guidato da Fratelli d’Italia. Sotto i portici, intanto, Marrone già assapora il 2027

Giuli a Torino: dittonghi, baccalà e sogni di un’Italia “intiera”

Il Ministro Giuli

Era iniziata come una visita istituzionale, una delle tante in cui un ministro arriva, saluta, stringe mani e riparte con il sorriso di chi ha compiuto il proprio dovere civico. Ma con Alessandro Giuli, si sa, niente è mai così semplice.

A Torino si presenta come un viaggiatore del tempo, uno che maneggia l’italiano come un cimelio da salotto ottocentesco, uno che ama infiocchettare la politica con dittonghi d’altri tempi e una postura da dandy del Collegio Romano. E infatti, appena varcata la soglia del Circolo dei lettori, ecco il colpo di scena linguistico: «Fratelli d’Italia dovrebbe governare l’Italia intiera»Intiera, sì. Così, per ricordarci che la cultura serve a molte cose, anche a far girare i titoli dei giornali.

Prima del Circolo, però, Giuli fa tappa alla redazione de La Stampa, ancora scossa dall’irruzione dei manifestanti della settimana scorsa. Entra, osserva, ascolta.

Poi, con il tono grave dei momenti istituzionali, dichiara: «È un attacco alla democrazia». E rincara subito la dose: «Ambienti oltranzisti ed estremisti che si travestono da ProPal arrivano a compiere atti di violenza così intimidatoria, oggettivamente pericolosi. Segnali al limite dell’eversione». Insomma, secondo il ministro Torino non è solo città di musei e caffè letterari: è diventata la cartina di tornasole dello stato di salute della Repubblica.
E questo lo ripete più volte, come un mantra in giacca e cravatta: «Bisogna rispondere in modo coeso, con una vigilanza da parte di tutte le istituzioni e di tutte le forze politiche».
La democrazia, per Giuli, non è un concetto astratto: è un condominio che va sorvegliato giorno e notte, perché non si sa mai chi potrebbe suonare alla porta.

Il ministro non ne fa solo una questione di giornali. Nel suo elenco, in stile comizio colto, rientrano: la contestazione a Susa contro Giuseppe Culicchia, reo di aver presentato un libro sulla tragica storia di Sergio Ramelli; il manifesto con Guido Crosetto bruciato a Roma, episodio che Giuli cita senza quasi prendere fiato; la questione Askatasuna, su cui ribadisce la sua teoria preferita: «I centri sociali o rispettano la legalità o devono essere liberati. Tutti, indiscriminatamente».
Un concetto che il ministro ripete come se fosse inciso sul retro del suo telefono.

Poi arriva la parte conviviale della giornata: il pranzo.
Una scena che sembra uscita da una serie TV ambientata tra Palazzo Lascaris e piazza Castello. Attorno al tavolo, insieme al ministro, siedono Culicchia, la vicecapogruppo Augusta Montaruli, gli assessori regionali Marina Chiarelli e Maurizio Marrone. Quest’ultimo, ritto e compiaciuto, è già in modalità “candidato sindaco 2027”.
Sul tavolo c’è la Torino che piace: bistecche, carciofi fritti, baccalà mantecato. Non proprio un pranzo leggero, ma d’altronde le battaglie culturali si combattono meglio a stomaco pieno.
L’unica a dileguarsi rapidamente è Evelina Christillin, presidente del Museo Egizio, che dopo aver salutato Giuli si rimette al lavoro con un elegante «devo andare a lavorare».
Tradotto: lasciamo ai politici il piacere della digestione.

Intanto Giuli continua la sua collezione di diagnosi sulla tenuta democratica del Paese.
«C’è un clima oggettivamente brutto», scandisce, «perché quando un direttore viene contestato per un libro, o un ministro viene bruciato in effigie, bisogna rispondere mostrando solidarietà da tutto l’arco costituzionale».
La libertà d’espressione, ribadisce, va protetta come una reliquia: «Determinati segnali di intolleranza vanno immediatamente denunciati e isolati».
È il Giuli più serio, più impettito, quasi carabinieresco, che convive con l’altro Giuli: quello che sogna un’Italia “intiera” governata da Fratelli d’Italia.

Sotto i portici di via Bogino, nel frattempo, Marrone annuisce con entusiasmo crescente. Non serve la sfera di cristallo per capire che la frase «Fratelli d’Italia dovrebbe governare l’Italia intiera» è già finita sul suo taccuino degli slogan per la campagna elettorale.

Prima di lasciare Torino, il ministro apre anche una parentesi sul Salone del Libro. Un tema che affronta con cautela da oracolo:
«Il ministero è aperto a qualsiasi sostegno ulteriore, ma sulla base di ciò che chiederanno il Salone, il territorio, il Circolo dei lettori e l’ecosistema culturale».
Che, tradotto dal ministeriese al piemontese, suona più o meno così: “Veduma un pò”.

E mentre Giuli se ne va, tra una citazione sull’eversione e un saluto retrò, arriva la voce di Culicchia, che ringrazia pubblicamente: «Il passato deve essere pacificato», dice, ricordando di aver raccontato nei suoi libri dolore, violenza e famiglie spezzate.
È la parte più sobria della giornata, quella che riporta tutto sul terreno del dialogo, l’unico che Culicchia continua testardamente a difendere.

Il bilancio finale? Una Torino attraversata da un ministro che coniuga il lessico dell’Ottocento con gli allarmi della modernità. Una città osservata, sezionata, interpretata come un laboratorio politico. E un Giuli che, tra un carciofo fritto, una frase vintage e un richiamo alla democrazia, riesce a trasformare un semplice lunedì in un lungo romanzo politico, ironico, retorico e tremendamente torinese.

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