Cerca

Cronaca

Alta sicurezza tradita da microtelefonini e sim fantasma: clan attivi dal carcere, 31 persone sotto accusa

Parenti, prestanome e detenuti coinvolti nel giro di telefoni introdotti durante i colloqui e pacchi consegnati in prigione

Cellulari nelle celle d’alta sicurezza, infiltrazioni, clan e “ambasciate” dall’interno: l’inchiesta che travolge 31 persone tra detenuti e complici

Cellulari nelle celle d’alta sicurezza, infiltrazioni, clan e “ambasciate” dall’interno: l’inchiesta che travolge 31 persone tra detenuti e complici

L’inchiesta parte come un dettaglio marginale e diventa un mosaico criminale che abbraccia mezza Italia. Dalle celle dell’Alta sicurezza 3 del carcere di Genova Marassi uscivano telefonate che non avrebbero mai dovuto esistere: conversazioni familiari, scambi di conforto, contatti con il cappellano. Ma soprattutto, ed è questo che ha fatto scattare l’allarme, “ambasciate”. Messaggi, ordini, istruzioni per continuare a reggere i traffici delle diverse cosche anche dietro le sbarre.

La Casa Circondariale di Genova Marassi è una delle carceri situate nel capoluogo ligure

A coordinare l’operazione è stato il procuratore aggiunto Federico Manotti, con Direzione distrettuale antimafia e DIA impegnate nell’indagine sull’introduzione illegale di dispositivi e sulla ricettazione aggravata dall’associazione mafiosa. Il risultato è un elenco di 31 indagati, a vario titolo, tra detenuti e familiari. Una rete che ha permesso ai boss e agli affiliati di parlare con parenti, prestanome, amici, e persino con altri detenuti in altre strutture del Paese.

Il sistema funzionava così: microtelefonini introdotti dai parenti durante i colloqui, nascosti in pacchi o consegnati direttamente in occasione delle visite. Le schede sim venivano attivate da negozi compiacenti nel centro storico di Genova, intestate a persone inesistenti o a ignari cittadini stranieri. Un flusso continuo, secondo gli investigatori, che ha coinvolto almeno 150 telefoni e 115 sim utilizzate da detenuti per reati di mafia.

La svolta investigativa arriva nel 2021, quando gli inquirenti scoprono che un soggetto già sotto osservazione stava parlando con un detenuto. Da lì, si apre il varco per monitorare chiamate, dispositivi e contatti. Tra gli indagati emerge il nome di Ottavio Spada, 36 anni, ritenuto legato al clan Spada di Ostia e arrestato nel 2018 dalla DDA di Roma. A lui si affiancano soggetti considerati vicini alle cosche Morabito di Africo, Grande-Aracri di Cutro, Molè di Gioia Tauro, Gallico-Frisina di Palmi.

Le perquisizioni sono scattate in dodici istituti penitenziari: Fossano, Ivrea, Alessandria, Cuneo, Tolmezzo, Chiavari, La Spezia, Parma, San Gimignano, Lanciano, Rossano, Santa Maria Capua Vetere. Una cartina che mostra l’estensione del traffico e il modo in cui le cosche, nonostante i regimi di alta sorveglianza, riescano ancora a mantenere i contatti verticali con l’esterno.

Il fenomeno dei cellulari introdotti in carcere non è nuovo. Uno degli episodi più eclatanti risale al 2024, quando la polizia penitenziaria trovò un pallone da calcio imbottito con telefoni e droga, lanciato oltre il muro del penitenziario. Un caso che aveva riacceso richieste insistenti dei sindacati per una schermatura tecnologica degli istituti, misura che ancora oggi procede a macchia di leopardo.

Per i 31 indagati la fase è ora delicatissima. La procura ha chiuso le indagini e ognuno di loro ha 20 giorni per chiedere di essere interrogato. Terminata questa finestra, scatterà la richiesta di rinvio a giudizio. Resta aperta la domanda più inquietante: come è stato possibile che, in un reparto di massima sicurezza, una rete così estesa abbia continuato a funzionare per anni senza essere intercettata prima?

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori