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06 Novembre 2025 - 11:16
La fascia da sindaco se la mettono tutti a Chivasso. L'assessore in Consiglio: "Ho sbagliato? Allora sono pronto a battermi le natiche in pubblico"
«Io sono disponibilissimo a pagare qualsiasi sanzione o condanna o sono anche pronto a battere le mie natiche sul menir che abbiamo in piazza d’Ami, come si faceva anticamente nel Medioevo, gridando Cedo Vobis, va bene?».
La frase, messa così, sembrerebbe uscita da un comizio di Carnevale. E invece è la risposta ufficiale di Fabrizio Debernardi, assessore ai Lavori Pubblici di Chivasso, a un’interrogazione sulla fascia tricolore.
Una risposta che dice tutto: sulla leggerezza, sull’arroganza, e sulla concezione che una parte della classe politica locale ha delle regole che essa stessa ha scritto.
Debernardi ha parlato in Consiglio comunale, martedì 4 novembre, dopo che la consigliera Claudia Buo di Liberamente Democratici aveva riportato all’attenzione il caso: la foto dell’assessore, fascia al petto e sorriso ufficiale, scattata il 19 ottobre a Casalborgone durante l’inaugurazione del teatro.
Il problema? Nessuna delega, nessuna autorizzazione, e una regola chiarissima nel Cerimoniale della Città di Chivasso, aggiornato nel 2024: «La fascia tricolore è riservata al sindaco, che può delegarne l’uso solo al vicesindaco».
Eppure, ancora una volta, qualcuno ha pensato che “non fosse un dramma”. Dopo l’assessora Cristina Varetto, finita nel mirino a marzo per lo stesso motivo, è toccato a Debernardi. Due episodi in sette mesi, due “leggerezze in buona fede”. E un messaggio disarmante: le regole valgono finché non servono.
In aula, Debernardi ha preso la parola con tono apparentemente contrito, ma la sua autodifesa è presto scivolata in una sceneggiata tricolore.
«Non voglio mettere in imbarazzo il sindaco, che non sapeva nulla», ha premesso. «Non avevo delega, è stata una leggerezza in buona fede. Ma ho portato il tricolore con orgoglio e con onore».
Poi la stoccata: «Ci sono ministri che con la bandiera si pulivano il deretano. Io, invece, la rispetto.»
Infine, il colpo di teatro: la battuta del “menhir” e delle “natiche medievali”. Un’autopenitenza da cabaret che ha strappato qualche risata, ma che dice più di mille comunicati.
Perché, dietro l’ironia, resta un fatto semplice: un assessore ha violato un regolamento che la sua stessa giunta ha approvato.
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L'assessore Debernardi a Casalborgone
Ma non è solo questione di forma. È sostanza politica.
Quando Debernardi ricorda con orgoglio il valore del tricolore, cita perfino la storia della Repubblica Cispadana e l’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di manifestazione del pensiero, come se la fascia fosse un diritto d’espressione e non un simbolo istituzionale. Il risultato è un paradosso perfetto: un amministratore che trasforma una violazione amministrativa in un atto di patriottismo personale.
Un po’ come se un automobilista sorpreso a 120 all’ora in centro spiegasse che correva “per amore della velocità, che è valore universale”.
Dall’altra parte, la replica di Claudia Buo è stata tanto più misurata quanto più affilata. «Lungi da me essere contro il tricolore – ha esordito – l’ho portato anch’io, ma sempre con delega, quando il regolamento lo permetteva.» Poi la stoccata politica: «Siete stati voi a modificare lo Statuto contro il nostro parere. Avete scelto di applicare il TUEL, e ora lo violate.»
Buo ha chiesto formalmente al segretario comunale di segnalare al Prefetto i due episodi – quello di marzo e quello di ottobre – come previsto in caso di violazione del Cerimoniale.
E, con una punta d’ironia, ha chiuso ricordando all’assessore che «la fascia si indossa sulla spalla destra, con il verde al collo».
Una lezione di protocollo che suona anche come una lezione di coerenza.
Dietro lo scambio tra Buo e Debernardi c’è tutto il clima politico di Palazzo Santa Chiara: una maggioranza che tende a minimizzare ogni scivolone come “errore umano”, e un’opposizione che, più che indignarsi, tenta di salvare il principio di legalità.
Perché, come ha ricordato la consigliera, «quando chi governa non rispetta le regole, anche quelle apparentemente insignificanti, perché dovrebbero farlo i cittadini?».
È il punto vero della vicenda. Non la fascia in sé, ma il simbolo che rappresenta: la continuità tra Stato e istituzioni locali, il rispetto per le forme come garanzia di sostanza.
Il Testo Unico degli Enti Locali, all’articolo 50, parla chiaro: la fascia è distintivo del sindaco e può essere utilizzata dal vicesindaco solo per delega formale. Tutto il resto è abuso.
E quando un’amministrazione viola le proprie stesse regole, non è più questione di bon ton istituzionale, ma di credibilità politica.
In tutto questo, il sindaco Claudio Castello resta in disparte. Nessuna parola pubblica, nessuna presa di distanza, nessun richiamo formale.
È la stessa linea scelta dopo il “caso Varetto”: minimizzare, sorridere e andare avanti.
Ma quante volte si può minimizzare prima che la leggerezza diventi abitudine?
E quanto vale la parola “istituzionale” in una città dove la fascia tricolore è trattata come un accessorio da passerella?
La verità è che Debernardi non ha semplicemente infranto una norma: ha scoperchiato un’idea distorta di rappresentanza.
Quando dice di aver portato la fascia “con orgoglio e onore”, si autoassolve in diretta. Trasforma l’abuso in atto d’amore.
Ma l’amore per i simboli senza rispetto per le regole è solo una forma di appropriazione estetica.
E quel tono da professore di storia del tricolore non cancella la sostanza: il gesto resta illegittimo.
L’orgoglio non è esimente.
In fondo, la storia della fascia di Chivasso è anche la storia di un simbolo che ha perso peso, come se i colori della Repubblica potessero piegarsi alle convenienze del momento. Il tricolore, dice Debernardi, rappresenta la speranza, la fede e la carità.
Ma in questa vicenda rappresenta, più banalmente, la disinvoltura del potere. E quella, purtroppo, non è tricolore. È trasversale.

L'assessore Varetto al Carnevale
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