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22 Ottobre 2025 - 23:59
Stefano Lo Russo, sullo sfondo Torino
Torino continua a parlare di futuro, ma questa volta c’è chi non ci vede nulla di smart. Il deputato Antonio Iaria, architetto e volto del Movimento 5 Stelle, ascoltata la presentazione del nuovo Piano Regolatore Generale, ha deciso di dire la sua. E l’ha fatto senza troppi giri di parole: “Da tecnico prima ancora che da politico, mi sono sentito un po’ offeso.”
Sì, offeso. Perché, spiega, “uno dei provvedimenti più importanti per la nostra città è stato trattato in modo sommario, fuffoso e poco chiaro.” E già che c’è, Iaria ci mette pure la battuta: “La grande novità sarebbe trasformare le ZUT e le ATS in FRU? Più che FRU, FUFF.”
Il deputato Iaria
Un colpo diretto, ironico e chirurgico, che riporta il dibattito sul terreno che più gli è congeniale: la concretezza. “Avevamo una proposta tecnica vera, concreta, aperta al confronto — un documento che si poteva discutere, criticare e migliorare nel merito”, ricorda l’ex assessore all’urbanistica della giunta Appendino. Un documento che prevedeva “100.000 abitanti fluttuanti, per la maggior parte studenti, l’accorpamento delle mille destinazioni d’uso, la velocizzazione dei piani esecutivi e delle varianti, il consumo di suolo zero e l’aumento del suolo recuperato.”
E invece, oggi, secondo Iaria, siamo di fronte a un piano che “non mostra nulla di tutto questo.” Le sue domande sono tante, e tutte rimaste senza risposta: “Quanti abitanti insedia? Accorpa davvero le destinazioni d’uso? Come intende velocizzare i piani esecutivi convenzionati? E la revisione della zonizzazione acustica — c’è un progetto o rimane solo sulla carta?”
Il tono è quello di chi non ha tempo per gli slogan e le slide con i palazzi luminosi. “Un piano non è un esercizio di stile — dice — e come architetto vorrei vedere tavole, numeri, norme, esempi pratici. Qui, purtroppo, non vedo nulla di tutto questo.”
Il deputato non lo dice apertamente, ma il messaggio è chiaro: dietro i termini accattivanti e le nuove sigle come FRU si nasconde il vuoto pneumatico di un piano che non risponde alle esigenze reali. Una Torino sempre più disegnata da chi non la vive, e sempre meno abitata da chi ci lavora, ci studia, ci cresce i figli.
Il rischio, come già denunciato, è quello di una città “vetrina”, dove il cemento torna a scorrere più veloce delle idee, e la sostenibilità si misura in metri quadrati edificabili.
Torino, insomma, continua a raccontarsi “intelligente”. Ma tra le pieghe delle dichiarazioni di Iaria emerge il sospetto che, più che smart, sia solo un po’ troppo furba.
La verità è che, nel nuovo Piano Regolatore, Torino continua a immaginarsi come una capitale europea dell’innovazione, dove i grattacieli nascono come funghi e le residenze universitarie di lusso spuntano accanto ai poli accademici, pronte ad accogliere studenti “globali” con la carta di credito sempre carica. Gli altri, quelli veri, possono invece continuare a dividere un monolocale in Barriera di Milano con un frigorifero del 1987 e il riscaldamento a turno, una settimana sì e una no. È la meritocrazia, bellezza.
Dietro la spinta visionaria del nuovo PRG si intravede la solita mano internazionale che tutto trasforma in storytelling urbano: Bloomberg Philanthropies, la fondazione del magnate americano Michael Bloomberg, ex sindaco di New York e mecenate delle “smart cities”. Il suo marchio si riconosce subito: nella retorica digitale, nelle parole d’ordine della sostenibilità, nei progetti di rigenerazione che odorano più di marketing che di pianificazione. Torino, insomma, entra ufficialmente nel club delle città che vogliono essere tutto tranne che se stesse.
E allora via: grattacieli “intelligenti”, piste ciclabili che forse portano da qualche parte, quartieri “green” tirati su su ex aree industriali e, naturalmente, gli immancabili “studentati premium”, dove l’istruzione diventa un’esperienza di lusso con palestra integrata, terrazza panoramica e lavanderia con app dedicata. Gli studenti veri, quelli che fanno i turni nei call center per pagarsi l’affitto, possono continuare a farsi il caffè con la moka.
Si chiama “Torino Smart City”, ma nella città reale — quella dove gli autobus si rompono, le buche diventano crateri e i servizi sociali sopravvivono a stento — di smart c’è ben poco. È la solita commedia urbana: mentre si parla di futuro, il presente cade a pezzi. Si inaugurano torri di vetro e si chiudono consultori; si installano sensori per monitorare l’aria, ma si tagliano fondi ai centri per i disabili. È il progresso, dicono.
Il sindaco Stefano Lo Russo e l’assessora Chiara Foglietta la raccontano come una “città che cambia, che guarda avanti, che investe nei giovani”. E certamente guarda avanti, sì — talmente avanti che rischia di non accorgersi più di chi resta indietro. Nei rendering è tutto perfetto: verde, efficiente, luminoso. Nei quartieri veri, invece, da Mirafiori a Falchera, le luci si spengono alle dieci e i marciapiedi restano sbriciolati per anni.
L’idea di fondo è chiara: trasformare Torino in una “vetrina internazionale”. Ma come tutte le vetrine, conta solo l’effetto ottico, non il contenuto. Dietro i palazzi in vetro e acciaio restano le stesse storie di precarietà, disoccupazione e povertà che nessun piano regolatore potrà mai cancellare. Mentre si sogna di attrarre investitori, i torinesi continuano a fare i conti con bollette fuori controllo, stipendi da fame e affitti da capogiro.
E nel frattempo, la Torino che lavorava, quella che produceva, si spegne piano piano. I capannoni si svuotano, le fabbriche si spengono, ma almeno — ci rassicurano — verranno “rigenerate” in hub creativi e coworking sostenibili, arredati in stile minimal e frequentati da startupper in bici elettrica. Una bella cartolina, certo. Ma senza chi ci lavorava dentro.
E poi ci sono le periferie, quelle che non finiscono mai nei dépliant del futuro e che invece restano lì, a fare i conti con le stesse difficoltà di vent’anni fa. Quartieri dove il welfare è un ricordo e i giovani scappano appena possono. Ma tranquilli: arriveranno i progetti di “riqualificazione integrata”, magari con un bel murale, due panchine di design e la promessa di un “nuovo inizio”.
Il paradosso è che Torino, pur di sembrare moderna, rischia di diventare finta. Si organizzano convegni dal titolo altisonante — “Reinventare la città post-industriale” — dove gli unici presenti sono assessori, consulenti e architetti. Chi abita davvero quei quartieri, invece, resta fuori, forse perché stonerebbe con la palette cromatica delle slide.
E poi c’è la solita retorica “green”, che tinge di verde perfino il cemento. Cementificare un’area? Nessun problema: basta piantarci un alberello accanto. Costruire torri di lusso? Facile: scrivi “a impatto zero” e il gioco è fatto. È la magia del linguaggio: Torino si trasforma in un laboratorio di sostenibilità… ma solo a parole. Nella realtà, il traffico resta, le polveri pure, e le ciclabili finiscono sempre nel nulla.
La parola magica è una sola: smart. Smart housing, smart mobility, smart lighting. Smart tutto. Peccato che per i torinesi la vita resti tutt’altro che smart: stipendi bassi, servizi carenti e un crescente senso di esclusione. Forse più che intelligenza artificiale servirebbe un po’ di intelligenza politica.
Torino ha sempre saputo reinventarsi, è vero. Ma questa volta sembra più un lifting che una rinascita. Si veste di futuro, ma sotto restano le stesse rughe. Le nuove torri vogliono rappresentare la modernità, ma rischiano di diventare monumenti all’ineguaglianza. Dal trentesimo piano la vista è mozzafiato, ma da terra si vede sempre la stessa polvere.
Alla fine la domanda resta una: chi vivrà in questa nuova Torino? Una città sempre più vetrina e sempre meno casa, dove la modernità è un privilegio e la normalità un lusso.
E se il futuro deve essere questo, allora — come direbbe Iaria — più che FRU, è tutta FUFF.
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