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Ombre su Torino
18 Settembre 2025 - 06:51
Dalle Vallette all'olimpo della criminalità. La folle corsa di Antonio Di Falco.
“I fermati sono tutti dello squallido quartiere delle Vallette, quindi dei disadattati, emarginati, sradicati”. Nella Torino di metà anni ’70, quella in cui si registra un omicidio a settimana, queste parole sprezzanti sono la dedica che un cronista de La Stampa fa a un gruppo di ragazzi appena maggiorenni. È il 1976, e sono finiti sul giornale dopo una sanguinosa tentata rapina in cui ci è scappato il morto. Tra loro, quello meritevole di una biografia criminale (e che, ad altre latitudini, forse, avrebbe ispirato libri e serie tv) ha da pochi mesi 18 anni ma ha già alle spalle un curriculum delinquenziale di tutto rispetto: si chiama Antonio Di Falco.
Nasce e cresce in un posto in cui le vie prendono i nomi dai fiori ma in cui germoglia la violenza. In cui il profumo dei boccioli si può solo immaginare, seppellito dalla puzza dell’asfalto bollente e delle colate di cemento dell’Istituto Autonomo Case Popolari che tira su i casermoni che accolgono migliaia di persone in cerca di fortuna nella città della FIAT.
L’aneddotica sarebbe ricca ma, per raccontare questa storia, è sufficiente partire dalla scuola media Don Luigi Orione, in via dei Mughetti 22. Se attualmente è abbandonata ed è diventata il parco giochi dei vandali, nel 1971 accoglie centinaia di studenti ma il clima non sembra essere troppo diverso.
Il preside e i professori, nei primi 5 mesi dell’anno, hanno già presentato almeno 30 denunce al vicino commissariato di polizia. Segnalano le proprie auto con le gomme tagliate e frasi incise sulla carrozzeria, vetri dell’edificio distrutti a sassate e minacciosi adolescenti armati di catene e coltelli.
Antonio, che abita a 200 m di distanza, in via delle Primule 4, è iscritto lì ma il 31 maggio decide di non seguire le lezioni e di occupare il suo tempo in maniera diversa. Si presenta davanti all’istituto con due amici e vede una classe rientrare dopo una lezione di ginnastica all’aperto. Insieme ai suoi compari avvicina un paio di scolari con una scusa, li insulta e li prende a schiaffi. Quando il professor Francesco Cittadino interviene viene malmenato tanto da finire in ospedale. Antonio Di Falco riesce a scappare e, per la prima volta, il suo nome compare nella cronaca cittadina. Ha solo 13 anni.
Tra le stesse pagine, lo ritroviamo nel dicembre successivo beccato su una 500 rubata poco prima e poi, nel giugno 1972, quando viene arrestato per essersi impossessato dell’incasso di un torneo di pallacanestro organizzato dalla parrocchia delle Vallette. Qualche mese dopo, insieme a tre coetanei, ferma un taxi in piazza Vittorio chiedendo di farsi portare nel quartiere natio. Scendono all’altezza di corso Toscana e, al momento di dover pagare la corsa, aggrediscono l’autista a pugni, lo caricano in macchina e uno di loro si mette alla guida. Vengono catturati, dopo un breve inseguimento, da una volante che passa di lì per caso.
Sospettato di altri furti, fa il salto nella delinquenza “seria” nel 1976. Il 2 febbraio viene assaltata una gioielleria in via Cecchi 2. Dentro ci sono l’orefice, Sergio Freyria e un cliente suo amico, Aldo Cavagnino. Il titolare del negozio vede alla porta d’ingresso due tizi sospetti e, dopo aver fatto scattare il meccanismo d’apertura, impugna una calibro 38. Quando capisce che quella è una rapina, li chiude dentro e inizia una sparatoria in cui rimane ferito un bandito e ucciso il signor Cavagnino. Assolto in primo grado, dove invece vengono condannati il fratello Roberto e altri giovani malviventi, Antonio fa il diavolo a quattro per autoaccusarsi dell’accaduto, riuscendo, grazie anche alla determinante testimonianza della madre, a prendere 24 anni in appello, nel maggio 1980.
Quando ascolta la sentenza, tuttavia, è già in carcere, accusato di crimini di ogni genere.
Il primo è quello relativo al rapimento di un bambino di sei anni, Salvatore Priolo. Figlio di un barista di corso Regina, viene sequestrato il 2 aprile 1980 e rilasciato quattro giorni dopo. Secondo Di Falco, non sarebbe stato un rapimento “vero” ma sarebbe stato il pretesto per avere indietro dal padre di Salvatore 250 milioni di lire, proventi di un traffico di stupefacenti che l’uomo non gli avrebbe mai dato nonostante lo avesse sfruttato come corriere. Nonostante la storia sembri incredibile, la corte gli crede e lo condanna solo a nove anni.
Nello stesso periodo gli vengono imputati tre omicidi e altrettanti tentati omicidi. Il primo a cadere sotto i colpi della sua 7,65 è Giovanni Bagato, nel dicembre 1979. Lui e un suo complice avevano svaligiato la casa di un’amica di Di Falco: la vendetta arriva sottoforma di inseguimento in macchina e di due pallottole che lo inchiodano al volante della sua 500 in via Stradella.
Nicola Schimenti, invece, è un tossico che ha parlato troppo a proposito del colpo all’oreficeria. Per “difendere” il fratello, Antonio lo ammazza il giorno dell’epifania del 1980.
In febbraio si fa trovare all’interno di una mansarda in via Bibiana 34 dove vive un boss palermitano dello spaccio, Giovanni Battista Amato. Lo vuole rapinare ma quello reagisce e viene abbattuto da cinque proiettili. Fuggendo, si imbatte in un vicino di casa della vittima, Giovanni Agatone, e spara pure a lui ma l’uomo si salva.
Gli altri tentati omicidi sono quello del buttafuori di un club, e soprattutto, quello di una guardia carceraria, Vincenzo Rovito. Quest’ultima azione venne fatta perché, per non farsi mancare niente, Di Falco, mentre è latitante, chiede ai vertici di Prima Linea di entrare nel loro gruppo. Nonostante un battesimo del fuoco “andato bene” la svolta politica però non avverrà perché viene considerato un mezzo matto: a fine di autofinanziamento propone all’organizzazione (che rifiuta) di rapinare Amato. Come abbiamo visto, ci penserà da solo.
A processo, presieduto dalla dott.ssa Caminiti, si presenta regalandole una rosa, senza però impietosire la corte che, per tutti questi fatti, lo condanna all’ergastolo nel 1983.
Una volta dentro si autoaccusa dell’omicidio di un operaio FIAT morto nel ’79, Maurizio Fiorentino, e poi riuscirà a collezionare altri 9 anni per aver fatto entrare dell’eroina in carcere.
Da lì, pur scarseggiando le notizie, non uscirà più.
Muore circa dieci anni fa. Una persona che lo ha conosciuto e che ne ha seguito da vicino le “imprese” ci ha descritto i suoi ultimi giorni così: “E’ morto in cella totalmente rimbambito da psicofarmaci, droghe e quant'altro che lo ridussero l'ombra di sè stesso. Facendo un calcolo si è fatto una quarantina di anni di galera. Di cosa è morto? Mi vien da dire che Tony è morto di carcere”.
Di carcere e di una vita criminale che ha pochi paragoni nella città di Torino.
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