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Ombre su Torino

Notte di sangue in via Gradisca: studentessa massacrata, fratello morto d’infarto, delirio satanico tra calci, morsi e cocaina

Nel monolocale di Santa Rita, all’alba del 15 novembre 1988, tre tossicodipendenti trasformano un festino di droga in un incubo: riti improvvisati, un pestaggio feroce, una ragazza senza vita e due fratelli travolti da follia e morte

Una porta sull'inferno in via Gradisca
Aprire una porta e trovarsi all’inferno.
Sono le 4.30 del mattino del 15 novembre 1988 e un brigadiere dei carabinieri è appena arrivato in via Gradisca 84, a Santa Rita. È lì perché numerosi abitanti del condominio sono stati svegliati nel cuore della notte da una serie di rumori ed urla provenienti da un pied-à-terre al piano rialzato.
Il milite si qualifica bussando contro il battente pensando, come accade spessissimo in quei casi, che sarebbe stata sufficiente una breve ramanzina e che tutto sarebbe finito in pochi minuti.

Il palazzo di via Gradisca 84

Questa volta, però, non è così.
L’uscio si spalanca all’improvviso e dall’altro lato compare un uomo con lo sguardo spiritato, nudo, con un crocefisso in mano che sbraita con spiccato accento siciliano. Il brigadiere tenta di chiedere spiegazioni ma l’altro, prima di sbattergli la porta in faccia, gli risponde con una singola frase: <<C’è il diavolo in noi, mio fratello è Dio, c’è il diavolo!>>.
La scena dura pochi secondi ma il carabiniere riesce ugualmente a dare un’occhiata all’interno. Il piccolo monolocale è a soqquadro, con cassetti e armadi aperti e svuotati. C’è una confusione incredibile, tantissimo sangue e un uomo e una donna, nudi anche loro. Lei è distesa a terra e lui la sta prendendo a calci, gridando come un pazzo: <<Schifosa, butta fuori quello che hai dentro!>> le dice.

L'interno del monolocale

Il gendarme chiama i rinforzi e, insieme ai colleghi, riesce finalmente ad entrare nella casa. La donna è sempre sul pavimento, immobile, e l’uomo che la stava colpendo la sta calpestando come se danzasse sul suo corpo. L’altro, nel frattempo, si è avvicinato alla coppia. Dapprima anch’egli sferra un paio di pedate alla povera sventurata esanime e poi si gira verso il suo aguzzino. Quel che accade è surreale: i due uomini iniziano a pestarsi tra di loro, poi si avvicinano, quasi si volessero baciare in bocca, e quello che ha aperto la porta afferra i testicoli dell’altro mentre il secondo gli morde la lingua, staccandogliene un pezzo, prima di finire collassato a faccia in giù. La donna è morta, il suo aggressore spira sull’ambulanza e l’uomo con la lingua tagliata viene ricoverato con una prognosi di dieci giorni.
Lei si chiamava Fosca Setteducati ed era una studentessa di 24 anni fidanzata col suo aggressore, il ventinovenne Giuseppe Gullo. Il terzo, l’unico sopravvissuto, è il fratello di Giuseppe, Gaspare, 31 anni.
Tutti e tre tossicodipendenti, hanno a loro nome una sfilza infinita di reati. Fosca era già stata condannata per associazione a delinquere, estorsione e detenzione di stupefacenti, Giuseppe per rapina, favoreggiamento e spaccio e Gaspare per ricettazione e truffa.
Le indagini partono dal superstite che dall’ospedale racconta la faccenda così: <<Mio fratello Giuseppe era indemoniato. Ho vinto uscire un serpentello dai suoi pantaloni ed infilarsi nel collant di Fosca. Abbiamo capito che era il diavolo ed abbiamo cercato di cacciarlo anche da lei, premendole il torace e la pancia, lei era d'accordo, non si è opposta, sapeva che lo facevamo per il suo bene. Quando è morta il diavolo è uscito, ma è venuto dentro di me. Mio fratello mi ha morso la lingua per farlo uscire>>.
La vicenda, su cui i giornali si buttano senza ritegno, viene presentata come una specie di orgia satanica nella quale Gaspare avrebbe avuto, sostanzialmente, il ruolo di esorcista.
A corroborare le sue parole, tra l’altro, ci sarebbero anche alcuni elementi che sbucano fuori subito. Nel monolocale, nella confusione generale, vengono reperiti oggetti sacri, riviste di esoterismo, un’agenda con impresse annotazioni deliranti sul diavolo e un registratore con all’interno una audiocassetta. In questa, la cui etichetta riporta il titolo “Le voci dell’aldilà” i carabinieri ascoltano una serie di versi gutturali che vengono presentati come quelli dei trapassati e che sarebbero stati la colonna sonora della mattanza.
C’è di più. Dai primi interrogatori tra parenti e amici, è in particolare una vicina di casa di Fosca ad incuriosire gli inquirenti. Così la giovane: <<Era una ragazza spensierata, con tanta voglia di provare cose nuove. Con Giuseppe stava da un paio d'anni, da quando lui aveva lascialo la moglie. La droga? Sì, ho sempre saputo che ci viveva dentro ma non me ne ha mai parlato apertamente, nonostante avessimo una certa confidenza. Se ne vergognava. Fosca mi ha telefonato qualche settimana fa per confidarmi le sue paure. Lei e Giuseppe erano convinti di essere indemoniati. Mi ha raccontato che non stavano bene fisicamente, che il lavoro accusava qualche alto e basso, che i rapporti con i parenti erano difficili. Qualcuno voleva loro male, al punto da avere cercato di mettere loro contro il maligno. La madre dei fratelli fa la maga, riceve in casa, officia rituali. Aveva messo in testa a loro due e a Fosca che erano vittime di una fattura>>.
Andrea Bascheri, il sostituto procuratore incaricato delle indagini, non è però uomo preda facile di suggestioni del genere. L’autopsia sui cadaveri e le analisi del sangue effettuate a carico di Gaspare rivelano che quella notte i tre avevano in corpo un cocktail di cocaina, allucinogeni ed alcol. In aggiunta, nel doppiofondo di un cassetto del pied-à-terre (che era la casa di Fosca) vengono trovati 50 grammi d’eroina ancora da tagliare del valore, una volta “trattati” e spacciati, di circa 100 milioni di lire: è quella la pista giusta, il diavolo non c’entra niente.
Si scopre che i due fratelli e la ragazza erano la manovalanza di un pericolosissimo gruppo di criminali d’origine calabrese da cui avevano comprato 3 etti di eroina a credito, senza pagare. Fosca, incaricata di gestire “la cassa” tra vaglia internazionali e mazzette di banconote, aveva deciso di tenere per sé 50 grammi per uso personale e per smerciarli senza dire niente ai due compari. La tragedia scaturisce dal fatto che i creditori erano venuti a battere cassa e che non c’erano i soldi per pagarli anche, e soprattutto, perché mancava la parte di introito che sarebbe dovuta arrivare dalla vendita di quanto celato dalla ragazza.
La notte dell’omicidio Gaspare e Giuseppe erano andati in via Gradisca per cercare il maltolto. La serata era iniziata tranquillamente, avevano iniziato a bere, a sniffare cocaina e si erano calati anche un paio d’acidi tanto da trovarsi strafatti e nudi nella stanza. Poi, però, i fratelli si ricordano perché fossero lì, mettono sottosopra l’abitazione, cercano l’eroina dappertutto, pestano a sangue Fosca ma lei non parla. Lei muore per le botte e, una volta che non poteva parlare più, la follia si è impossessata dei due uomini fino a Giuseppe che morde la lingua di Gaspare (circostanza interpretata come un ultimo avvertimento di stile mafioso a tenere la bocca chiusa) e che poi muore per cause naturali, stroncato da un infarto e dall’eccessiva eccitazione.
La banda a cui facevano capo i Gullo e la Setteducati viene catturata e condannata a un totale di 113 anni e 1 miliardo di lire di multa, mentre Gaspare sceglie il rito abbreviato.
A processo viene condannato definitivamente, nell’ottobre 1991, a 15 anni e 8 mesi per omicidio e spaccio.
Al padre della vittima, per sua stessa richiesta, un simbolico risarcimento danni di mille lire.
Voleva solo giustizia, in una storia infernale in cui, però, Satana non c’entra proprio nulla.
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