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Lo stiletto di Clio
21 Maggio 2024 - 08:30
IN FOTO 1950 circa, un orto
Un tempo, orti e giardini erano coltivati con ottimi rendimenti nell’intero territorio fra Torinese, Canavese e Vercellese. Se ne vedevano in mezzo alle case dei borghi di più antico impianto come in aperta campagna, non lontano dalle cascine isolate. Nel tardo Medioevo, gli orti – come puntualizza la storica Anna Maria Nada Patrone – erano molto diffusi poiché «permettevano rapide rotazioni di colture, senza un eccessivo impoverimento del suolo, anche se richiedevano un continuo ed intenso apporto qualitativo e quantitativo di fatica giornaliera, tanto più nei periodi di disoccupazione o di scarsità di lavoro». Nel latino dell’epoca, «brogliuum» era l’orto o frutteto: è citato negli statuti di Foglizzo e Andrate.
Legumi, verdure e ortaggi costituivano, d’altronde, la base del regime alimentare per tutti i ceti non abbienti. Nei piatti più caratteristici della cucina locale si faceva grande impiego di cipolle, rape, zucche, porri e cavoli, per tacere dell’aglio. Di «fasoleria» ossia di campi coltivati a fagioli accennano gli statuti medievali di Chivasso. Le rape sono menzionate a Barbania, Albiano, Caluso e Andrate. I rapanelli compaiono a Chiaverano, Bairo, Canischio, Albiano, Foglizzo, Lessolo, Caravino e San Benigno, per rimanere nel Canavese dove, in località diverse, sono menzionati gli asparagi, i cetrioli, le lattughe, i sedani, le melanzane, gli spinaci, i finocchi e il rafano. Ovviamente non figurano le patate e i pomodori che provengono dall’America, come pure le carote, il cui uso era limitato alla farmacopea.
Una vera cerchia di orti e giardini stringeva Settimo Torinese da ogni lato. Sul finire del diciannovesimo secolo, gli orti fiancheggiavano persino l’ultimo tratto dell’attuale via Roma, verso lo scalo ferroviario. «Giardinera» era chiamata la cascina che sorgeva all’estremità orientale del borgo, lungo la strada di Chivasso, e di cui non rimane che l’edificio padronale: gli affittavoli tenevano a orto un’ampia parte del terreno contiguo che un alto muro di ciottoli e mattoni chiudeva tutt’intorno. Anche le fonti documentarie del tardo Medioevo accennano all’esistenza di piccoli appezzamenti riservati alle colture orticole.
Sempre a Settimo, i bandi campestri del 1739 proibivano a chiunque d’introdursi nei giardini e negli orti altrui, «sotto qualsisia pretesto, quantonque non segua alcuna esportazione» di prodotti della terra. Gli stessi bandi menzionano le seguenti coltivazioni praticate in Settimo: fave, fagioli, ceci, aglio, cipolle, cavoli, nonché «ortaglie» in genere e «altri erbaggj». Ma è evidente che la tipologia delle colture orticole doveva essere assai più ampia, comprendendo anche lattughe, porri, rape, zucchini, piselli, ecc.
Per quanto concerne la patata, pur non disponendo di specifici documenti relativi all’area settimese, si può ritenere che la sua diffusione non sia anteriore all’epoca napoleonica, assai più probabilmente ai primi decenni del diciannovesimo secolo. Il raccolto annuo di questo tubero, intorno alla metà dell’Ottocento, superava appena i novanta quintali, mentre era di centottanta nel 1884 (a soli tre ettari ammontava la superficie coltivata a patate).
A proposito dei cavoli, invece, nel 1878 Antonio Bertolotti precisava: «La coltivazione si presenta in forma di giardini per l’accuratezza con cui è esercitata». Erano proprio i cavoli, durante la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del nostro secolo, i prodotti più noti dell’agricoltura locale. Smerciati a Torino e nel Canavese fruttavano «annualmente un sessantamila franchi al villaggio», come si legge nelle note corografiche dello stesso Bertolotti.
Ai piccoli orti di famiglia, specie se situati in prossimità delle abitazioni, badavano generalmente le donne. I bambini più grandicelli si rendevano utili in mille modi: sradicavano le erbe infestanti, trasportavano i secchi d’acqua per l’irrigazione, eliminavano gli insetti nocivi e così via. Solo i compiti più faticosi, quali la vangatura e la sarchiatura, toccavano agli uomini. Anche la vendita degli ortaggi era per lo più demandata alle donne.
Negli anni fra le due guerre mondiali, nonostante il forte sviluppo dell’industria, gli orti costituivano ancora una preziosa risorsa per l’economia di Settimo Torinese.
Nel 1930 vennero censite ben 821 aziende agrarie: di queste, però, oltre la metà disponeva di una minima superficie di terreno, insufficiente a sostentare un nucleo familiare. Le piccolissime proprietà altro non erano che gli orti a cui si dedicavano, nel tempo libero, le famiglie di operai, lavandai e artigiani.
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