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06 Luglio 2025 - 17:43
Centosettantacinque settimane. Centosettantacinque sabati. Centosettantacinque presìdi in Piazza di Città a Ivrea. E mentre nel mondo si continua a uccidere, a bombardare, a vendere armi, a firmare contratti con la morte, qui — in una piazza che non ha portici e non ha cerimonie — un gruppo di persone continua a esserci. Con ostinazione. Con dignità. Con parole che pesano.
Sabato 5 luglio il presidio si è aperto con l’intervento di Francesco Giglio, segretario cittadino del Partito Democratico. Un fatto nuovo, quasi storico: perché il PD — che da sempre ha scelto di restare alla larga da questo appuntamento settimanale, temendo forse il contatto diretto con parole troppo scomode — ha finalmente deciso di “esserci”, almeno simbolicamente. Ma è stato un esserci cauto, controllato, recintato dentro un comunicato.
“Non sappiamo più cosa fare. Ogni giorno a Gaza si uccide chi sta in fila per mangiare. Ogni giorno ascoltiamo notizie in uno stato di impotenza senza senso”, ha letto Giglio. La proposta: donare il gettone di presenza dei consiglieri comunali a Emergency. Un gesto minimo, ma pur sempre qualcosa.
Eppure, a chi da anni presidia quella piazza, non è sfuggita la contraddizione. Il PD ha sempre evitato di farsi vedere: non una bandiera, non una parola spesa pubblicamente in 175 settimane. Presente nei palazzi, assente nei momenti scomodi. E ora, davanti all’evidenza di un massacro senza fine, cerca una sponda. Ma può bastare una donazione per lavare via il silenzio di mesi? È la domanda che molti si sono fatti, senza doverla nemmeno pronunciare.
Cadigia Perini, voce storica del movimento pacifista eporediese, ha accolto il gesto, ma non ha abbassato la soglia.
“Bene la donazione. Ma ora vogliamo di più. Vogliamo che il Circolo PD prenda le distanze dai suoi eurodeputati che continuano a votare per il riarmo. Vogliamo leggere la parola genocidio. Vogliamo la bandiera palestinese sul balcone del Municipio”. Perché chi resta a guardare, o parla solo a metà, contribuisce al massacro.
Poi è arrivata la voce di Livio Obert, con i numeri della follia. La spesa militare italiana è destinata a salire da 34 miliardi nel 2024 a 113 nel 2035. Una valanga di soldi: 877 miliardi in undici anni. “Altro che taglio dello 0,2% per la fame nel mondo, come proponevano Rovelli e 30 Premi Nobel. Oggi si plaude all’aumento delle spese militari come se fosse progresso. Abbiamo perso il senno”, ha detto. E ha letto i dati ufficiali, riga per riga. Ogni numero un macigno.
Obert ha anche dato voce al messaggio del vescovo di Ivrea Daniele Salera per la festa di San Savino. Un testo pieno di mitezza e di dolore, che ha ricordato la testimonianza del santo martire e ha denunciato la legittimazione crescente della guerra come soluzione accettabile.
“La guerra non è mai necessaria. Essa ha sempre nascosto interessi deliranti”, ha scritto il vescovo. Una voce chiara, netta, fuori dal coro.
Mario Beiletti, presidente dell’Anpi, ha letto e commentato l'editoriale pubblicato su La Voce a firma di Franco Giorgio: un’accusa senza giri di parole al comunicato del PD, reo di non pronunciare ciò che va pronunciato: “Manca la parola genocidio. Manca la parola apartheid. Eppure Gaza è un caso da manuale”. Case distrutte, ospedali bombardati, pogrom di coloni armati e protetti. Tutto questo ha un nome. E chi non lo dice, tace. E chi tace, acconsente.
Beiletti ha cercato di mantenere aperto lo spazio del presidio: “Non voglio che qualcuno si arroghi il diritto di fare da guida o da coscienza critica degli altri. La pace non si costruisce imponendo la propria verità, ma accogliendo anche chi non la vede ancora. L’unità è tutto, anche tra le differenze”. Sempre lui ha lanciato un monito contro la tentazione di fare del presidio un recinto identitario. “Qui potremmo accogliere anche un rappresentante della comunità ebraica. Perché chiunque parli di pace ha diritto di essere ascoltato”.
Tant'è, perchè le parole, sabato mattina, hanno continuato a colpire. Norberto Patrignani ha ricordato Alexander Langer, a trent’anni dalla sua morte. “Contro la guerra, cambia la vita”, scriveva. Denunciava l’ossessione per la ricchezza, la velocità, la produzione infinita, come radice delle guerre. Proclamava un altro mondo possibile: “Lentius, profundius, suavius”. Più lento, più profondo, più dolce. La pace non come buonismo, ma come rivoluzione dello stile di vita. Prima ancora che della politica.
Infine Pierangelo Monti con sul groppone il peso di tutte le notizie che ogni giorno passano sotto silenzio. A Gaza l’esercito israeliano ha bombardato una scuola che ospitava sfollati, ha sganciato bombe da 200 chili su un bar frequentato da giornalisti. Ogni giorno decine e decine di morti. Solo nell’ultima settimana: 73 lunedì, 118 mercoledì, 142 martedì. La fame ha ucciso più delle bombe. E intanto in Ucraina la guerra continua, con raid massicci e città in macerie. E l’Italia? Vende materiali a “duplice uso”, aggira i controlli, invia trizio e nitrato d’ammonio. E i soldi passano — come ha rivelato Altreconomia — da conti intestati alla Valforge presso Intesa Sanpaolo. Tutto ufficiale. Tutto documentato.
Monti ha ricordato che il Comune di Napoli ha approvato una mozione per rompere ogni rapporto con enti israeliani legati al governo di Tel Aviv. Ha chiesto che Ivrea faccia lo stesso. E che i Comuni del Canavese — i cui sindaci hanno sfilato il 24 maggio — non si limitino più a partecipare, ma decidano.
A chiudere, come un pugno nel cuore, la poesia letta da Simonetta Valenti: “Il mio corpo è Gaza e sono stanca”. Una voce spezzata, stanca, nuda. “Sono Gaza e sono stanca del mondo che mi passa accanto con le mani in tasca. Mi hanno lasciata respirare, ma solo per vedere se sanguino ancora”. Nessuno ha parlato dopo. Perché quando la verità brucia, anche il silenzio è un atto politico.
La presenza del Partito Democratico al 175° Presidio per la Pace di Ivrea non è passata inosservata. Non poteva. Dopo 175 settimane — 175 sabati — di assenza, silenzio, distanza, il segretario cittadino Francesco Giglio si è affacciato con un comunicato. Misurato, composto, persino accorato. E soprattutto: concreto. Una donazione del gettone di presenza dei consiglieri comunali a Emergency, per aiutare chi cerca di curare sotto le bombe. Un gesto giusto, apprezzabile, condivisibile. Ma anche, inevitabilmente, insufficiente.
Perché quando si arriva in piazza dopo due anni e mezzo di assenza — mentre si uccidevano bambini a Gaza, mentre i presìdi si rincorrevano settimana dopo settimana, mentre si alzava la voce contro il riarmo, contro i profitti della guerra, contro l’ipocrisia europea — non si può pensare che basti un comunicato. Non si può calare dall’alto un gesto di solidarietà senza prima mettersi in ascolto di chi in quella piazza ci ha messo faccia, voce e corpo.
Mario Beiletti, presidente dell’Anpi, ha avuto parole sagge, da vero costruttore di pace. Ha invitato tutti — anche chi ha sollevato critiche, anche chi non ha pronunciato la parola “genocidio” — a riconoscere il valore di ogni gesto, la dignità di ogni presenza. Ha chiesto di non cercare “il nemico interno”. E ha ragione. Ma ha anche detto con chiarezza che “ciascuno dà quello che può”. Ecco: è proprio questo il punto. Ora il Partito Democratico deve dimostrare che può dare di più.
Può, e deve, andare oltre la donazione. Può, e deve, prendere posizione pubblica e netta sui massacri in atto. Può, e deve, usare le parole giuste e non è affatto vero che sono tutte uguali. Di sicuro non lo sono in politica. Dire genocidio, apartheid, complicità occidentale non è un dettaglio semantico: è una scelta. È decidere se stare dalla parte dei carnefici o delle vittime. Se riconoscere che la pace non è un equilibrio ipocrita fra le parti, ma una rottura radicale con la logica del dominio.
E allora sì, bene il gesto. Bene la presenza. Ma adesso ci aspettiamo di più. Ci aspettiamo che il Circolo PD di Ivrea chieda pubblicamente alla propria segreteria nazionale e ai propri rappresentanti a Bruxelles di non sostenere più pacchetti di riarmo. Ci aspettiamo che chieda lo stop alle esportazioni di armi e materiali a duplice uso verso Israele, anche quelli mascherati da fertilizzanti o componenti elettroniche. Ci aspettiamo che chieda, come ha fatto il Comune di Napoli, la sospensione di ogni rapporto con enti israeliani legati al governo di Tel Aviv. Ci aspettiamo che spinga i Comuni del Canavese ad andare oltre le lettere e le fiaccolate, e adottare atti amministrativi veri, coraggiosi, vincolanti.
La politica non è fatta solo di parole, ma neanche solo di gesti simbolici. È fatta di scelte. E oggi — nel tempo del disastro, della guerra spacciata per normalità, del diritto umanitario calpestato — scegliere è diventato un obbligo morale. Non c’è più spazio per le ambiguità.
Non basta più affacciarsi alla piazza. Bisogna entrarci. E restarci. Anche quando fa male. Anche quando si viene contestati. Anche quando ci si sente a disagio. Perché è lì, nel disagio, che si misura la verità delle parole “democrazia”, “pace”, “umanità”.
Altrimenti — anche con il miglior comunicato, con la più generosa delle donazioni — resterà solo l’impressione che il Partito Democratico abbia voluto “esserci” quando era comodo. Quando era tardi. Quando era facile. E quando, per molti, non era più abbastanza.
LA VOCE DEL CANAVESE
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