Resta in carcere Roberto Rosso, l'ex assessore regionale del Piemonte arrestato il 20 dicembre in un'inchiesta di 'ndrangheta con l'accusa di voto di scambio politico-mafioso. Lo ha deciso, a Torino, il tribunale del riesame, che ha respinto il suo ricorso. "Quella dei giudici - commenta il difensore, l'avvocato Giorgio Piazzese - è una decisione che rispetto ma non condivido. Non sussiste alcuna esigenza cautelare perché non vi è agli atti alcun elemento che dimostri un collegamento né in allora né tantomeno oggi con la criminalità organizzata". Rosso, secondo gli inquirenti, in occasione delle elezioni regionali della scorsa primavera avrebbe fatto avere tramite due intermediari del denaro ai presunti boss Francesco Viterbo e Onofrio Garcea in cambio di un pacchetto di voti. Un totale di "almeno cinquemila euro" in base all'avviso di chiusura indagini confezionato a tempo di record dalla procura subalpina. Inutilmente, finora, ha tentato di convincere gli inquirenti che quei soldi erano solo un contributo per l'attivazione della campagna elettorale sul territorio e che non sapeva di avere a che fare con personaggi legati alla criminalità organizzata. Ha solo ammesso di avere commesso "una follia" perché lui, da asso pigliatutto delle preferenze per il centrodestra in Piemonte (era candidato di Fdi) di quei voti non aveva bisogno. Ma la somma non fu rendicontata. E l'imprenditrice Enza Colavito, uno degli intermediari, ha detto ai pm di avere detto a Rosso che "quei due erano degli spacciatori". "La tesi della Procura - prosegue l'avvocato Piazzese - è che Rosso sia ricattabile in quanto non avrebbe confessato. Rosso ha reso un interrogatorio in cui ha ricostruito tutti i passaggi della vicenda e ha collaborato con i pubblici ministeri. Non può certo confessare un reato che ha la consapevolezza di non aver commesso. Valuterò il ricorso in Cassazione". L'inchiesta, che riguarda in tutto undici persone, è già stata chiusa. La procura chiederà di unificarla con un'altra, chiamata Carminius, sulla presenza della 'ndrangheta nella zona di Carmagnola, dove secondo gli inquirenti opera un gruppo collegato alla cosca Bonavota della provincia di Vibo Valentia, e dove, secondo un pentito siciliano, si muove anche la mafia: "'ndrangheta e Cosa nostra hanno fatto un patto per lavorare assieme senza darsi fastidio". L'uomo ha cominciato a collaborare con la giustizia perché, ha spiegato, aveva saputo che qualcuno si era procurato sei bombe a mano dalla Calabria "per fare un attentato" ai danni di una persona che "creava problemi". "Questa cosa - ha aggiunto - non mi piace e voglio evitarla".
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