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06 Maggio 2022 - 22:00
Ulderico Plemone
Giancarlo Sandretto
* * * Non voglio narrare la mia storia alpinistica ma un modo di vivere la montagna. Anni Quaranta. Anni di alpinismo post pionieristico dove già si affermavano i primi fuoriclasse come Giusto Gervasutti (1). Anni in cui si accennava un alpinismo di massa proprio del dopoguerra, come sfogo e conseguenza delle costrittive vicende belliche, durante le quali nello zaino dei pochi che, malgrado tutto, ancora frequentavano la montagna trovavano posto le patate lesse al posto del pane. Voglio narrare la vita di borgata attraverso modeste vicende e piccole storie di animali che convivevano con la leggenda e la tradizione. Il tutto si evolve da una cittadina di provincia (2) dalla cui periferia già iniziano le falde dei non lontani duemila, dalla cima dei quali già si scorge il massiccio del Gran Paradiso. Per giungere al fondo delle valli sulle quali si innalzavano i primi tremila si impiegavano da una a tre ore di bicicletta. Allora in montagna si andava in bicicletta e le “scalate”, si può dire, avevano già inizio sin dal momento in cui si usciva di casa. Se uno non possedeva, come me, una bicicletta propria la difficoltà era già di quarto grado perché occorreva reperirla presso un’anima buona. Dal 4° si passava addirittura al 6° se, fallito il tentativo di procurarsela, ci si doveva adattare in due su una sola bicicletta, zaini compresi. Inoltre, come tutti sanno, per arrivare ai piedi delle montagne le strade sono per buona parte in salita. Tempi eroici poi mitigati dalle prime motorette e da nuove strade che si spingevano più in alto, in valli secondarie, facendo così risparmiare ore di fatica, tanto più gradite poiché al sabato ancora si lavorava. I rifugi erano pochi e anche i bivacchi di alta quota. Si sopperiva sovente con un fascio di legna rimediato strada facendo attenuando col fuoco, mantenuto al minimo anche quello, i morsi del freddo durante le notti all’addiaccio. Cos’erano mai nel mio tempo giovane i sacchi da bivacco? Si rimediava con i sufficientemente robusti sacchi di carta utilizzati per le farine, peraltro anche quelli non facili da reperire. Cos’erano mai le giacche a vento, le piccozze, i ramponi? Appena sentiti nominare. Rari a vedersi nel nostro circondario, come erano rare le prime automobili. Eppure si andava. Si rimediava in qualche modo spesso fortunoso la piccozza. Che al momento opportuno si smanicava. Ma l’entusiasmo e lo spirito di sacrificio erano tanti e la montagna era vissuta palmo a palmo, centellinata come le bibite al ribes o all’arancia. Si cominciava con poco, dalle montagne che si potevano raggiungere partendo a piedi da casa. Marce di quattro, cinque ore verso i duemila con un po’ di arrampicata, su qualche roccione o qualche placca solitaria, emergente dagli alti pascoli, già magari per sole capre. Poi la foto, con la macchina noleggiata, in posa su “terrificanti” pareti, isolate accuratamente dal contesto panoramico. Sognando i tremila. Poi vennero anche questi, i primi ghiacciai come quelli del Ciardonej solo raramente screpacciato ma che si diceva ghiacciaio come quelli raffigurati sui libri di scuola; e già si toccava il cielo con un dito. Questo modo di crescere, di un alpinismo casereccio, contribuiva però a costruire più compiutamente l’uomo, a temprare lo spirito e il corpo con gradualità. Abituarlo ai primi rovesci, senza ancora incorrere in gravi pericoli ai quali si sarebbe arrivati in seguito, non del tutto impreparati. Ben diverso l’alpinismo di oggi. Sebbene più attrezzato e documentato, esso ignora per buona parte tutti questi minimi particolari; mirante subito alla “risonanza” delle alte quote, spesso con una conoscenza ed una preparazione da sola palestra. Dalla mia attività alpinistica – e siamo negli anni Quaranta – non potrà prescindere la formazione caratteriale e del modo di pensare. Il libero confronto con la montagna – dove potevano esprimersi, al di fuori di un regime soffocante, personalità, passioni e una solidarietà sconosciuta altrove – non poteva non generare in me una presa di coscienza. Malgrado la corruzione esercitata dal regime sull’animo sin dalla fanciullezza, le delusioni e le attese che ne seguirono mi fecero ritrovare – quasi con mia sorpresa – nelle file del movimento di liberazione nazionale, che oppose gran parte del popolo italiano alla prepotenza fascista. I monti parlavano a me, come parlano a chi sa ascoltare, attraverso intelligibili e misteriosi linguaggi. Io imparai man mano a prestarvi ascolto. Sino a soffrirne la comprensibile tristezza quando nell’autunno avanzato, nella montagna ormai sola, i rami dei cespugli lungo i sentieri – strusciando sopra i calzoni degli ultimi frequentatori – sembrano implorare un saluto ed un po’ di attenzione. Così come gli ultimi gorgoglii delle fonti che si vanno spegnendo nel gelo dell’incipiente silenzio invernale. Note 1. Giusto Gervasutti (Cervignano del Friuli, 1909 – Mont Blanc du Tacul, 1946) è stato uno dei più grandi alpinisti italiani. Trasferitosi a Torino a 22 anni, protagonista di straordinarie imprese sulle Alpi e sulle Ande, è considerato il precursore dell’alpinismo moderno. Morì in un incidente durante la discesa del Mont Blanc du Tacul (m 4248), vetta del massiccio del Bianco, nell’Alta Savoia (Francia): a causa del maltempo era in fase di rientro e cadde nel tentativo di recuperare una corda rimasta impigliata. 2. Cuorgnè, nell’Alto Canavese, allora in provincia di Aosta e dal dopoguerra in quella di Torino. Qui il torrente Orco termina il suo percorso tra le montagne e prosegue nella pianura fin nei pressi di Chivasso, per immettersi nel Po.Edicola digitale
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