C’è una chiesa sulla collina torinese a cui le guide illustrate della città riservano al più un paio di righe. Innalzata in stile romanico, forse nel corso dell’undicesimo secolo, e ricostruita all’inizio del Seicento, è dedicata ai santi Vito, Modesto e Crescenzia, martiri cristiani del quarto secolo. Tracce della sua antica architettura sono visibili nel campanile, incorporato nell’edificio secentesco. Pochi sanno che la chiesa custodisce le reliquie di San Valentino. Purtroppo è difficile precisare di quale Valentino si tratti. È forse il patrono degli innamorati, la cui festa ricorre il 14 febbraio? In verità, neppure di quest’ultimo si conosce molto. Si tratta del sacerdote romano Valentino che subì il martirio nel 268? Oppure del vescovo Valentino di Terni, martirizzato cinque anni più tardi? Mah! Per dirimere la questione non giova sapere che negli «Acta Sanctorum» i santi di nome Valentino sono ben diciotto. Fra tante incertezze, una sola cosa appare indiscutibile: il culto di un non meglio identificato San Valentino era, un tempo, particolarmente vivo nella zona collinare torinese, come attestano alcuni documenti del diciottesimo secolo. Purtroppo i dati sicuri si fermano qui. La tradizione vuole che un certo Giovanni Agostino De Bernardi, ricco banchiere, parrocchiano di San Vito, abbia acquistato a Roma le reliquie di San Valentino, rinvenute nel cimitero di Sant’Agata. Trasportate a Torino nella casa collinare dei De Bernardi, le reliquie sarebbero state successivamente deposte in una semplice cappella che sorgeva nei pressi del Po. Scampate in modo piuttosto avventuroso a un’inondazione del fiume, i fedeli le avrebbero trasferite in un’altra cappella – che esisteva dalle parti dell’attuale parco del Valentino – per traslarle infine nella chiesa parrocchiale di San Vito. Sta di fatto che il toponimo Valentino è presente nelle fonti documentarie torinesi fin dal tredicesimo secolo. Ma sulla sua origine nulla di storicamente certo si conosce. Alcuni studiosi dell’Ottocento – sintetizza Riccardo Gervasio – «accennano ad una cappella dedicata a San Valentino, martire cristiano del 268; ma non escludono che già al tempo dei romani la località si chiamasse Valentinum, denominazione riscontrata in documenti che risalgono al 1275 e nel testamento del vescovo Amedeo di Romagnano (1505)». In particolare, nel diciannovesimo secolo, Luigi Cibrario puntualizzava: «Sulle rive del Po eravi qualche casa che aveva preso probabilmente fin dai tempi romani il nome di "Valentino"; seppure non derivava quel nome da una cappella dedicata a San Valentino». Altri storici si rifanno alla gentildonna chierese Valentina Balbiano, moglie di Renato Birago, che nel sedicesimo secolo possedeva una villa dove poi i Savoia fecero edificare l’attuale castello del Valentino, opera degli architetti Carlo e Amedeo di Castellamonte. Nella chiesa di San Vito, le reliquie di San Valentino furono solennemente trasferite nel 1769. La traslazione fu autorizzata dall’arcivescovo di Torino, Francesco Luserna Rorengo, su precisa richiesta del parroco Giuseppe Antonio Maffei, con un decreto emesso l’11 settembre di quell’anno. Si conosce anche un documento dello stesso arcivescovo col quale si autorizza il culto del santo nella chiesa parrocchiale di San Vito (11 ottobre 1769). Il momento della traslazione delle reliquie è raffigurato in un’incisione del tempo, custodita presso la Biblioteca Reale di Torino. Vi si scorge una processione che dall’attuale corso Moncalieri sale lungo la cosiddetta strada dei morti, la via percorsa dai cortei funebri che raggiungevano il cimitero di San Vito, oggi non più esistente.
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