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15 Luglio 2020 - 09:08
A metà degli anni Ottanta, Ulderico Plemone – grande appassionato di montagna ed autore di innumerevoli scalate, anche impegnative – ha sentito la necessità di mettere su carta le sue emozioni.
Ha cominciato a scrivere ma, diversamente da molti altri autori di libri sulla montagna, non ha voluto raccontare la sua storia alpinistica. O meglio, non solo. Ha cercato di narrare un modo di vivere le alte quote, soffermandosi sugli anni Quaranta e Cinquanta del ‘900.
Nel marzo 1996 aveva contattato Canavèis, rivista che avevo fondato l’anno precedente con l’architetto Giuseppe Buffo, mio amico e collega di lavoro.
«Cari amici del Canaveis, sono (..) nato a Cuorgnè quasi 72 anni fa. L’alpinismo (che ancora, più modestamente, frequento) è sempre stato per me la cosa più bella, la ricerca del nuovo, del sempre più difficile».
Ci aveva narrato delle sue ascensioni al Gran Paradiso, al Monte Bianco, alla Grivola, al Monviso. Qui, su queste vette, hanno avuto origine quelli che definiva i momenti magici. Ci aveva consegnato i suoi racconti, gli scritti di esperienze vissute: «se riterrete possano essere utili al giornale, sarò ben lieto di collaborare».
Iniziò così e sulla rivista trovarono spazio i suoi bellissimi racconti e le sue poesie («poesie che sgorgano dall’intimo, che ignorano schemi, sintassi, metro e rima, in quanto istintive»).
Ora alcune di quelle pagine sono qui raccolte, accanto ad altre mai pubblicate.
*****
Plemone era nato a Cuorgnè il 15 maggio 1924 e nelle officine della cittadina aveva cominciato a lavorare sin da giovanissimo. Nel settembre del ’43 aveva abbracciato gli ideali della Resistenza, andando a far parte della VI divisione di Giustizia e Libertà di Bellandy, operante nell’alto Canavese. Da allora prese il nome di Ulder, che lo accompagnò poi negli anni a venire.
Al termine della guerra aveva ripreso il lavoro di tornitore, proseguendo nel contempo – con rinnovato fervore – le sue imprese alpinistiche.
Nell’ambito lavorativo sarà poi sindacalista a tempo pieno nella CGIL e poi, lasciata Cuorgnè, impiegato in diverse aziende ad Avigliana e a Torino.
Nella metropoli sabauda prenderà la residenza con la moglie Marilena, prima di stabilirsi a Cascine Vica.
Ma appena poteva correva in montagna: soprattutto nelle valli valdostane e canavesane attorno al Gran Paradiso e nelle valli di Lanzo.
Rimase sempre molto legato alla casa di famiglia al Trüchèt, tra Salto e Chiesanuova, alla vigna e alla terra dei suoi, e questo è un tema che compare in molti suoi scritti.
Scompare il 12 dicembre 2006, a 82 anni e le sue spoglie riposano nel cimitero di Salto, a poca distanza dalla casa degli avi.
Giancarlo Sandretto
Il vin brülé
racconto tratto da “La mula di Oreste”
Ulderico Plemone
Era la notte del 31 dicembre. Nelle città, nei paesi, nelle case, si festeggiava la fine dell’anno e l’arrivo di quello nuovo, sperando – come al solito – che fosse migliore del precedente.
Noi eravamo in undici lassù, a pestar neve, senza mangiare e in procinto di passare la notte all’addiaccio. Avevamo risalito un sentiero al limite della percorribilità a causa della molta neve. A parte un minimo di generi di conforto non avevamo dotazioni alimentari né attrezzature. E il freddo era tanto: il nostro termometro già verso le otto di sera segnava 11 gradi sottozero.
Raggiunto l’obiettivo – fatta salva la sorpresa – in qualche modo ce la saremmo cavata. Avevamo risalito parte della valle – anche quella abbondantemente innevata – silenziosamente, con gli sci. Data l’ora, come era prevedibile, non incontrammo anima viva. Avemmo non poche difficoltà al momento di lasciare la strada maestra per individuare il sentiero. Dopo vari tentativi senza esito trovammo finalmente tracce precise; ecco il sentiero, non potevano sussistere dubbi, data anche la conformazione del terreno che andava a restringersi lungo l’alveo del torrente che interessava il solco profondo del vallone.
Sfiancati dal primo tratto di erto pendio, risalito praticamente in perpendicolare sino a che non trovammo quello che stavamo cercando, poco ci mancò che tutto finisse già sin dall’inizio nel peggiore dei modi.
Uno di noi scivolò malamente ma fu in grado di proseguire con molta buona volontà, malgrado una brutta sbucciatura lungo una coscia che potemmo medicare sommariamente.
Diversamente, pur non rinunciando alla missione, avremmo dovuto privarci anche di un secondo uomo, riducendo il già esiguo gruppo disponibile.
Per giungere a destinazione era stata prevista un’ora di cammino dalla strada maestra ma ne impiegammo assai di più. La traccia a volte diramava in altre direzioni, mettendo in forse le nostre certezze. Ad un certo punto intuimmo che eravamo in prossimità del nostro obiettivo: dal luogo che avevamo raggiunto ci apparivano dei lumi. Quello che ognuno di noi doveva fare era già stato assodato sin dalla partenza. Controllammo gli orologi: erano le 19 e 12. Data l’ora e la ricorrenza, la posizione così isolata ed impervia e la presenza di molta neve, eravamo matematicamente sicuri della sorpresa. Ora le case non erano più lontane e ormai visibilissime, poste com’erano completamente allo scoperto al sommo di un pendio di neve alquanto ripido. Eravamo già abbastanza vicini da udire delle voci concitate, tra le quali una particolarmente imperiosa.
In giro non c’era nessuno ma dalle voci avevamo potuto individuare il luogo dove pareva esserci maggior assembramento. Era lì che ci dovevamo dirigere. Dopo uno sguardo d’intesa, in un attimo eravamo sulla porta del locale. Non era nostra abitudine dare spallate alle porte; ci bastò appoggiare la mano alla maniglia e spingere dolcemente, e così entrammo.
Nel locale c’erano almeno una decina di persone e la sorpresa fu tanta che nessuno lì per lì mosse un dito o poté parlare. Ci guardarono come se fossimo piovuti dal cielo e prima che potessero riaversi dalla sorpresa fummo padroni del locale. Una intimazione comunque ci voleva. Così rivolto più ai miei che agli altri gridai spavaldamente, con tutto il fiato che mi restava: «Fermi tutti! Siamo ’n Guèra! Procediamo alla requisizione di tutto il vino disponibile!»
Ci accorgemmo subito che nella mia intimazione c’era stato un punto debole: quello di “requisire” solo il vino. Ma sembrava che il mio inconscio ne fosse già consapevole: nell’osteria – perché dell’osteria si trattava – oltre al vino non c’era null’altro da requisire.
Ma precisiamo. Guaria è la denominazione italiana di una borgata di Ronco Canavese, in valle Soana. Ma credo di non errare se dico che la quasi totalità di coloro che ne conoscono l’esistenza non lo sappia. Per tutti è Guèra. Che corrisponde alla traduzione in dialetto della parola italiana “guerra”. E su questo io, subdolamente, avevo giocato.
In Guèra ci eravamo recati per passarvi una specialissima notte di capodanno. Ma all’osteria non erano in grado di darci da mangiare né erano in condizione di rimediare in qualche modo.
Accomodante, l’oste ci disse che c’erano dei biscotti e, se volevamo, poteva farci un vin brülé. Nessuno, né oste né avventori, ci offrì un pezzo di pane o almeno delle uova: forse non si erano riavuti dalla mia “brutale” intimazione. Così non ci restò che passare al vin brülé, che con molta solerzia – devo dire – ci veniva propinato.
Quella sera ci fu una persona particolarmente felice del nostro arrivo inaspettato: la maestrina. Allora nella borgata non c’era la strada ma c’era ancora scuola (ora si sono invertite le cose); la maestra era rimasta bloccata lassù a causa della molta neve. Quando arrivammo noi aveva tristemente alzato il suo bel visino, sino ad allora assorto in una lettura. Poi anche per lei c’era stata la possibilità di passare un capodanno veramente diverso dal solito.
Tra un vin brülé e l’altro, diviso con gli altri avventori, concordammo di accendere un bel falò nel cortile più spazioso della borgata e di farci quattro salti.
Intanto che i borgatari provvedevano per il fuoco, noi del gruppo ci incaricammo di visitare le famiglie casa per casa onde porgere l’invito per il “gran ballo”.
Una cosa, di quel momento, mi rimase per sempre impressa: in una di quelle case c’era un piccolo abete, poveramente decorato con poche palline di stagnola da cioccolata; e sotto l’albero un piatto, con alcune piccole mele.
Sull’aia si presentò pure un vecchietto con una fisarmonica che sembrava un residuato bellico. Non è che sapesse suonare molte cose, forse non erano nemmeno sempre dei ballabili; ma che cosa si poteva pretendere all’ultimo momento e in quelle circostanze?
Tuttavia, dopo suoni misteriosi e arie a noi sconosciute – che i nativi dimostravano di apprezzare molto – il vecchietto che fino ad allora si era destreggiato alla bell’e meglio, scovò qualche perla nei reconditi meandri del suo repertorio. Smesso a metà quello che stava suonando, si impose una pausa, per lasciare trasparire dal suo viso – che gli anni avevano segnato senza togliere l’antica arguzia – uno strano ghigno che aveva quasi del satanico, colorato com’era dalle guizzanti giulà 1 del falò rinvigorito dalle bracciate di brutìn 2 gettate dai solerti montanari, che almeno in questo non difettavano di scorte.
Memore di passate scappatelle galanti nelle aie, propiziate a suo dire dai suoni della sua pellegrina, si alzò di slancio come se un tizzone ardente gli fosse penetrato nei calzoni. Il vecchietto gridò, come in un ultimo esaltante grido di guerra: «la corenta!», e poi giù, con furia gioiosa, a martoriare lo strumento. La fisarmonica sembrava doversi sbriciolare alle tremende sollecitazioni che le ancora robuste braccia del suo proprietario imponevano, nella ricerca appassionata dei toni e delle note di quella antichissima e popolarissima aria paesana.
Deje l’andi a la corenta,
balarine del paijs,
se ’l moros a ve cimenta
l’è l’amor ch’a lo tormenta.
Deje l’andi a la corenta,
balarine del paijs,
se ’l moros a ve contenta
ringrassielo d’un soris.
Balo pi bin le fiette
quand ch’a son bin cambià…
Fòrssa la baraonda
gira la ronda
taca ’l balet.
Fòrssa la balarina
pì bogiarina
ciapa ’l bochet.
Deje l’andi a la corenta,
balarine del paijs,
Ciapà ’l bochet? In sua sostituzione face l’apparizione – passando di mano in mano – l’ennesimo fiasco di vino. La baraonda fu veramente tanta, con girotondo e salti attraverso il fuoco, tanto che all’indomani i nostri indumenti sapevano ancora un po’ di ravatii 4.
Solo ora ci sto pensando ma sono sicuro che se ci avessero provato, grazie alle abbondanti libagioni di vin brülé, quella notte avrebbero potuto dare spettacolo anche alcuni “sputafuoco”.
Saltata la cena, andammo a dormire in un fienile, piccolino e rivestito di assi sconnesse. Se fosse stato compreso tra le case avrebbe goduto di una maggiore protezione dal freddo. Godeva invece di una vista meravigliosa: in bella esposizione com’era in mezzo ai prati, ai quattro venti, per la conservazione del fieno era l’ideale.
Se nella stalle sottostante ci fossero state le mucche, si avrebbe avuto un po’ di tepore, ma quelle non c’erano. Pensare che la stalla – assicurò il proprietario – era stata costruita appositamente interrata per garantire agli animali, durante l’inverno, una maggiore protezione.
Se per accedere al fienile bisognava salire un po’ di gradini, per accedere alla stalla si scendeva a fianco di questi, lungo una specie di trincea. Se mi dilungo in questi particolari c’è un motivo.
Eravamo abituati, noi del club alpinistico, a queste notti all’addiaccio, tra foglie e fieno preferivamo quest’ultimo, meno scrocchiante e più odoroso di erbe secche e di prati. E poi il fieno, quando è giovane – cioè di stagione – garantisce un certo tepore in virtù del suo processo di fermentazione.
C’era in giro un certo venticello poco promettente e la notte, pur con miriadi di stelle, era di un buio come la pece.
In questi ricoveri d’alta montagna – che per noi erano come hotel – le formalità sono ridotte a poca cosa, per non dire inesistenti. Non occorre mettere le scarpe fuori dalla camera per ritrovarle lucide al mattino: a questo provvedere direttamente lo sfregamento del fieno. Non ci sono cameriere addette al piano, non ci sono campanelli di chiamata, non occorrono registrazioni. Però non ti servono la colazione in camera e non c’è il cambio di lenzuola. Ma ci sono piccoli vantaggi: non corri rischi a causa dell’elettricità e dell’acqua corrente; l’aria corrente c’è, senza bisogno di operare su delle manopole. Ti infili calzato e vestito dentro il fieno e… buona notte.
Al mattino non hai che da toglierti di dosso un po’ di fieno che si è infilato nelle orecchie, dentro i calzoni, tra i capelli, dentro le calze e così via. Qualche filino molto indiscreto – ma dove non arrivano!? – lo trovi persino tra le natiche.
Al mattino bastò stropicciarsi gli occhi per accorgersi che mancava il padre di Franco. «Sarà già andato all’osteria» si disse: anche queste semplici parole avevano il potere di far ridere tutto il collettivo.
Potenza energetica e calorifica del vin brülé! Il padre di Franco non era andato all’osteria ma stava ancora dormendo saporitamente sul fondo della trincea nella quale era evidentemente scivolato al momento di “salire in camera”. La neve d’attorno si scioglieva, sgocciolando in allegri rigagnoli.
Erano gli anni Cinquanta e se l’alba del nuovo anno, così come appariva a noi in quel momento, avesse mantenuto le sue promesse, sarebbe stato un anno che più disgraziato di così non avrebbe potuto essere: il cielo era nero e faceva freddo, 14 sottozero.
Qualcuno del posto aveva scritto su una parete, forse col sangue di un coniglio: W IL 1954.
Eravamo tanto affamati da invidiare il cranio di Censino che – a quando si diceva – per farsi ricrescere i capelli aveva pensato di mettersi delle bistecche crude sulla cute.
Eravamo in Guèra ma compimmo una ritirata strategica così rapida difficilmente riscontrabile in un qualsiasi annale di storia patria: a mezzogiorno eravamo già tutti a casa, al cospetto di una tavola ricolma di ogni ben di dio.
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