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“Mi legava e versava cera calda”: condanna definitiva per lo psichiatra dei vip

La Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso: per il medico si aprono le porte del carcere

“Mi legava e versava cera calda”: condanna definitiva per lo psichiatra dei vip

“Mi legava e versava cera calda”: condanna definitiva per lo psichiatra dei vip

La condanna è definitiva: Stefano Maria Cogliati Dezza, 74 anni, psichiatra noto negli ambienti romani e per anni direttore sanitario di Villa Giuseppina, finirà in carcere. L’11 dicembre 2025 la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della difesa, rendendo irrevocabile la pena a 2 anni e 10 mesi per violenza sessuale su una sua paziente. È l’epilogo giudiziario di una storia iniziata nel 2019, quando una giovane donna — che qui chiameremo “Carlotta” — varcò la soglia dello studio medico in cerca di aiuto per un rapido aumento di peso. Pensava di trovare cura; ha trovato, secondo tre gradi di giudizio, abuso di potere travestito da terapia.

Gli atti descrivono una scena che nulla ha a che vedere con la clinica. La ragazza viene legata, bendata, frustata; il medico le versa cera calda sul corpo, applica lacci, usa pinze, inietta sostanze presentate come antidolorifici. Non è un dettaglio accessorio: nelle sentenze l’ago diventa lo strumento che disarma ogni resistenza, l’elemento che distingue il consenso dall’annullamento della volontà. La giovane precipita nel silenzio e nella vergogna finché trova il coraggio di raccontare tutto ai genitori. Parte la denuncia, arrivano le indagini, scattano misure cautelari e, nel maggio 2023, la prima condanna: 4 anni e 6 mesi con rito abbreviato. Il giudice scrive che Cogliati Dezza “violentò la paziente per affermare il suo potere”. Nessuna ambiguità, nessun rapporto tra adulti consenzienti. Solo una relazione terapeutica tradita.

In appello, nel gennaio 2025, la pena scende a 2 anni e 10 mesi grazie alle attenuanti generiche, ma la sostanza non cambia: gli abusi vengono confermati, così come il quadro di manipolazione e soggezione. È in questa fase che emerge un dettaglio biografico che pur non avendo valore probatorio pesa nel racconto: anni prima, la sorella di “Carlotta” si era affidata allo stesso psichiatra. È morta suicida nel 2007. I giudici non collegano i casi, ma spiegano come la famiglia potesse nutrire una fiducia originaria destinata a trasformarsi in trappola.

Sul fronte professionale, dopo la prima condanna l’Ordine dei medici di Roma sospende Cogliati Dezza. La vicenda riaccende il dibattito sulla lentezza della Cceps, spesso accusata di ritardare le sanzioni disciplinari. Nel 2025 il Ministero della Salute annuncia una riforma: sanzioni esecutive immediatamente, anche se impugnate. Un cambio di passo nato proprio da casi come questo. Intanto, l’Accademia Bonifaciana revoca il Premio Bonifacio VIII assegnatogli nel 2021, un gesto raro e simbolico di presa di distanza.

Le motivazioni delle sentenze usano parole chirurgiche: sottomissione, dipendenza, coercizione. Termini che in psichiatria pesano come macigni perché descrivono dinamiche in cui la vulnerabilità del paziente diventa strumento nelle mani del terapeuta. Qui, nella stanza in penombra, bendaggi, fruste e cera calda non appartengono a un contesto erotico tra privati, ma a un rapporto di cura dove l’asimmetria di potere è totale. “Mi costrinse a rapporti sessuali estremi”, dirà la giovane negli atti raccolti dagli inquirenti. Una frase che, nel suo realismo brutale, restituisce l’essenza del reato.

La difesa tenta ricostruzioni alternative, invoca la libertà sessuale degli adulti, contesta la qualificazione giuridica degli atti. Percorre tutte le vie di impugnazione, come è diritto. Ma i giudici ritengono che testimonianze, riscontri e coerenza del racconto superino ogni ragionevole dubbio. La Cassazione chiude il fascicolo. Per il medico si aprono le porte del carcere, senza possibilità di misure alternative: per la violenza sessuale, oltre i due anni, la legge lo impedisce.

Per la vittima resta un percorso di cura che va oltre la sentenza. Restano eventuali azioni civili per il risarcimento, le provvisionali già riconosciute, e soprattutto la ricostruzione di un patto di fiducia con il mondo della salute mentale. Per il sistema sanitario resta l’urgenza di procedure rapide quando emergono condotte gravissime, di audit interni più incisivi, di canali sicuri di segnalazione. E resta una lezione amara: la stanza di terapia deve tornare a essere solo il luogo della cura.

Il nome “Carlotta”, come quello usato nei fascicoli e nella stampa, è di fantasia. Serve a proteggere la dignità della giovane, l’unico punto fermo in una vicenda dove la fiducia si è incrinata, la legge ha parlato e le domande su come prevenire simili derive restano tutte sul tavolo.

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