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Cronaca
26 Ottobre 2025 - 09:33
Giustizia 4.0, ma senza cervello: a Torino i giudici citano sentenze inventate (e la Cassazione annulla tutto)
Quando la realtà supera la fantasia giudiziaria. Una Corte d’appello che cita sentenze della Cassazione mai pronunciate, un verdetto costruito su precedenti fantasma e, sullo sfondo, il sospetto — sempre più concreto — che la mano “colpevole” non sia quella di un cancelliere distratto, ma di un software con troppa voglia di sembrare intelligente.
È successo davvero, a Torino. E a metterci una toppa è stata proprio la Corte di Cassazione, che ha annullato la condanna di una donna accusata di frode fiscale, ordinando un nuovo processo.
Dietro il colpo di scena, il lavoro certosino degli avvocati Lorenzo Imperato e Raffaella Enrietti, che dopo la condanna della loro assistita a un anno e due mesi hanno avuto il dubbio che qualcosa non tornasse. Hanno preso in mano la sentenza, hanno controllato i riferimenti giuridici e — sorpresa — alcune delle decisioni citate come fondamenta del verdetto semplicemente non esistono.

“Le pronunce della Cassazione richiamate a sostegno della decisione non sono state reperite, nonostante ricerche approfondite anche presso gli archivi ufficiali”, scrive la Suprema Corte, con quel tono freddo che in realtà equivale a un ceffone.
Tradotto: la Corte d’appello ha costruito parte della motivazione su precedenti inventati o copiati male. Un errore che la Terza sezione penale della Cassazione ha bollato come “carente e erroneo”, aggiungendo che sono stati richiamati “principi giuridici mai affermati dalla Corte di legittimità”. In altre parole: una condanna fondata sul nulla.
Ma qui comincia la parte più interessante. Perché nei corridoi del Palazzo di Giustizia circola un’ipotesi che fino a qualche anno fa sarebbe sembrata ridicola: e se a scrivere la sentenza fosse stato un algoritmo?
Nessuno lo ammette, ovvio. Ma il sospetto è che qualche giudice o cancelliere abbia sperimentato un “aiuto digitale” nella redazione delle motivazioni. Un esperimento finito male, con l’intelligenza artificiale che, nel tentativo di fare bella figura, ha riempito i vuoti con precedenti immaginari.
Un po’ come uno studente che cita autori mai letti per fare scena.
E non sarebbe nemmeno un caso isolato. A gennaio, il TAR della Lombardia aveva già segnalato un avvocato che, in un ricorso contro la bocciatura di una studentessa, aveva riempito il testo di precedenti inesistenti. Anche lì, la mano dell’IA era dietro l’angolo. A Firenze, un giudice aveva dovuto stabilire che l’errore “artificiale” non bastava a punire il legale, purché non avesse influito sul risultato finale.
E a Torino, per non farsi mancare nulla, un Tribunale ha persino multato di 500 euro un cittadino che aveva presentato un atto redatto con l’aiuto di ChatGPT o simili.
Il paradosso, ora, è che la stessa tecnologia che prometteva di rendere la giustizia più rapida rischia di trasformarla in una barzelletta digitale. Con sentenze scritte da chi — o da cosa — non distingue un comma da un principio di diritto.
Insomma, se questa è la giustizia 4.0, qualcuno forse dovrebbe tornare alla penna e al codice commentato. Perché quando perfino la Cassazione deve ricordare ai giudici che i precedenti vanno controllati e non “immaginati”, significa che la macchina non ha sbagliato da sola: gliel’abbiamo insegnato noi.
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