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Cronaca

Sfruttamento prostituzione e racket e malaffare tra Torino e Settimo Torinese

Illusione di un sogno, incubo di sfruttamento: il dramma di giovani donne reclutate in Brasile e intrappolate nella tratta di Torino

Sfruttamento prostituzione e racket e malaffare tra Torino e Settimo Torinese

Sfruttamento prostituzione e racket e malaffare tra Torino e Settimo Torinese

Il meccanismo era semplice e spietato. Le ragazze venivano reclutate sui social con promesse ingannevoli: «Un lavoro da baby sitter in Italia, 1500 euro al mese». Ma appena arrivate a Torino, la favola si trasformava in incubo: appartamenti sovraffollati, documenti sequestrati, uscite vietate. «Non potevamo nemmeno affacciarci al balcone», ha raccontato una di loro, «dopo che una era scappata con un cliente».

Benvenuti a Torino, Via Pietro Cossa. Di giorno un’arteria qualsiasi della periferia torinese: qualche negozio, i bar che aprono al mattino, il traffico che scorre verso piazza Massaua. Ma basta attendere la sera, superate le otto, perché quella stessa strada cambi volto. Le vetrine si svuotano, i lampioni prendono il sopravvento, e sul marciapiede compaiono le sagome ordinate, quasi in processione, delle giovani trans che ogni notte si mettono in mostra. Non è una libera scelta, non è un mestiere improvvisato: è un copione che qualcun altro ha scritto per loro, con tanto di orari, tariffe e regole ferree.

Ogni metro di marciapiede ha un prezzo, e non basso: 250 euro da versare ai padroni invisibili che ne controllano lo sfruttamento. È il “fitto” del selciato, come se l’asfalto appartenesse a loro. Da lì in poi, il turno comincia alle 20.30 e si conclude solo alle sei del mattino. Venti minuti a cliente, non un secondo di più. Le cifre sono scolpite nella pietra: 20 euro per un rapporto orale, 30 per quello completo. Nessuna eccezione, nessuna possibilità di discutere. E se il cliente è disgustoso, puzza o è inguardabile, poco importa: come ha chiarito senza giri di parole uno degli indagati, intercettato dagli inquirenti, «Non esiste che il cliente ti debba piacere. Il cliente paga e basta».

prostituzione

A vegliare su questo commercio c’è Bruna, la figura che appare puntuale verso le due di notte. Mai la stessa macchina, sempre un autista diverso. Lei ritira l’incasso parziale e distribuisce il “necessario”: vestiti, trucchi, preservativi. Anche se questi ultimi, raccontano le vittime, non sempre vengono usati. Alla fine di una nottata, ciascuna di queste ragazze riesce a racimolare fino a 400 euro. Eppure, in tasca resta ben poco: qualche spicciolo per il caffè o le sigarette. Niente alcol, niente droga, vietati perché potrebbero attirare la polizia.

Il contrasto è stridente. La strada che unisce la Pellerina a piazza Massaua, di giorno assolata e quasi vuota, di notte si anima di kebabbari aperti 24 ore su 24, di clienti frettolosi, di protettori che osservano dall’ombra. Qui la criminalità straniera ha trovato terreno fertile, e la sezione della mobile che si occupa di tratta lo conferma: molte di quelle ragazze non sono libere. Sono ingranaggi di una macchina che parte migliaia di chilometri più in là, in Brasile, e che si chiude sulle notti torinesi.

La giudice Valentina Rattazzo, su richiesta dei pm Roberto Furlan e Valerio Longi, ha disposto il giudizio immediato per cinque imputati, tutti brasiliani, difesi dagli avvocati Francesca Caseri, Andrea Giovetti e Alberto Metallo. Le accuse parlano chiaro: tratta di esseri umani e sfruttamento della prostituzione di almeno dodici ventenni.

La difesa, naturalmente, contesta tutto: nessuna tratta, nessuna segregazione, solo scelte volontarie di chi ha deciso di emigrare per prostituirsi. Sarà il processo a stabilirlo. Ma intanto le testimonianze raccolte offrono un quadro molto diverso.

C’è la giovane che ha fatto partire l’indagine: un anno fa, approfittando di un momento di distrazione dei suoi guardiani, è riuscita a telefonare alla madre in Brasile. Da lì si è messa in moto la polizia federale sudamericana, con la collaborazione dell’Fbi. Il 24 settembre 2024 il console generale aggiunto del Brasile si è presentato in questura a Torino e ha raccontato la vicenda di Lavane: trovata su una sopraelevata, con in mano le chiavi di un alloggio in via Rieti, è stata portata via in fretta, nascosta in una casa protetta e infine rimpatriata.

Via Rieti era una delle tante basi logistiche: un monolocale con soppalco dove cinque o sei ragazze vivevano stipate, senza poter mettere piede fuori casa. 

Alcune basi si trovavano anche a Settimo Torinese. Qui, lontano dai riflettori della grande città, la segregazione era persino più dura: porte blindate, finestre chiuse, un isolamento che trasformava gli appartamenti in prigioni. Settimo Torinese come vero ingranaggio della catena che alimentava il racket.

Ogni dettaglio di quell’inferno è stato confermato dalle testimonianze delle vittime: «Pensavo di lavorare in pizzeria. Invece la prima sera mi hanno buttata in strada. Ho pianto, ma le altre mi hanno convinta a non ribellarmi».

Non mancavano elementi quasi da romanzo nero. Una di loro ha raccontato che a Torino «tutte le trans sono comandate da Nayara», una sfruttatrice temuta, pronta a usare le armi e a ricorrere a riti religiosi del Candomblé per mantenere le ragazze sotto controllo psicologico.

Il denaro, una volta raccolto, non restava qui. Veniva spedito in Brasile per alimentare nuovi reclutamenti. E dalle intercettazioni emerge anche il cinismo con cui venivano selezionate le vittime: «Mandami le foto di tutto il corpo, non solo del viso, altrimenti rischiamo che siano brutte come la fame».

Per le ragazze le regole erano identiche, senza scappatoie. Maya ricorda: «Si lavora tutti i giorni. Il passaporto lo tengono i protettori. Se lo vuoi indietro, devi pagare 10mila euro. Tutti i soldi che guadagni finiscono a loro».

È il lato nascosto della città, quello che non appare nei depliant turistici né nei discorsi rassicuranti delle istituzioni. Un mondo che vive nelle ombre, alimentato dal silenzio e dalla paura, e che ora finirà davanti a un tribunale. Ma al di là delle carte processuali, resta la realtà di quelle notti torinesi: un susseguirsi di neon, kebab a buon mercato, marciapiedi affittati e vite consumate in venti minuti, sempre troppo lunghi per chi li subisce, sempre troppo brevi per chi li compra.

Tra Torino e Settimo Torinese

Ci si accorge di loro solo quando la cronaca giudiziaria bussa alla porta: un’indagine, un blitz, un processo. Allora emergono i nomi dei magistrati, degli avvocati, degli imputati. Ma ciò che non emerge mai è il silenzio che avvolge ogni notte quelle strade. Perché via Pietro Cossa a Torino, o un appartamento blindato a Settimo Torinese, non sono soltanto luoghi di sfruttamento. Sono specchi. Riflettono il fallimento di un’intera società.

Perché dietro i corpi venduti c’è sempre una storia negata. Una ragazza che ha creduto alle promesse di un futuro, un viaggio che inizia con un biglietto aereo e finisce con una porta chiusa a chiave. Per loro la parola “casa” diventa sinonimo di cella. In via Rieti dormivano in cinque o sei in un monolocale, senza poter uscire. A Settimo le finestre restavano serrate, trasformando l’isolamento in un incubo quotidiano.

settimo

Si parla di prostituzione come di un “fenomeno”, ma chiamarla fenomeno è già un alibi. La verità è che siamo davanti a una nuova forma di schiavitù. Una schiavitù moderna, che non ha bisogno di catene di ferro: bastano un passaporto sequestrato, un debito inventato, la minaccia di una pistola o il ricatto di un rito voodoo.

Eppure questa realtà convive con la nostra normalità. Mentre loro lavorano sotto i neon e i lampioni, noi attraversiamo la strada per andare a cena, ordiniamo un kebab, saliamo sul tram. Facciamo finta di non vedere. Non solo: ci indigniamo se le prostitute occupano “troppo” i marciapiedi, se disturbano il decoro urbano, se creano problemi al traffico. Mai che ci indigniamo per chi le sfrutta, per chi le costringe.

Il cliente, quello sì, continua a sparire da ogni narrazione. Ma senza il cliente non ci sarebbe mercato. Non ci sarebbero ragazze disposte in fila indiana, non ci sarebbero turni che iniziano alle otto e mezza e finiscono all’alba. È lui il vero motore, eppure resta invisibile, protetto dall’anonimato e dall’ipocrisia.

Fa piangere pensare che lo stesso territorio che ha costruito fabbriche, che ha dato lavoro e dignità a generazioni di operai, ora diventi il palcoscenico di un commercio di carne umana.

Settimo Torinese, con le sue aree industriali, non è soltanto una “periferia”: è diventata complice, ingranaggio silenzioso della catena dello sfruttamento.

E Torino, capitale del lavoro e dei diritti sociali, come può accettare che nel suo cuore si consumi questo scempio quotidiano? Perché le istituzioni parlano di sicurezza solo in termini di telecamere e pattuglie, mai di protezione vera per le vittime? Perché i tribunali arrivano sempre dopo, quando ormai i corpi sono già stati usati, i sogni già distrutti, le vite già spezzate?

Non è un problema di ordine pubblico. Non è neppure solo un problema giudiziario. È una questione morale. È una ferita collettiva che dovrebbe scuoterci tutti. 

Ci piace pensare che la schiavitù sia un capitolo chiuso della storia. Non lo è. È qui, sulle nostre strade, nelle nostre periferie. Ha un nome e un volto.

Insomma, non basta raccontare. Se domani sera, a Torino come a Settimo, quelle o altre ragazze dovessero tornare in strada, significa che il nostro dolore non serve a nulla. La verità è che dietro ogni loro notte ci sono due colpevoli: chi le sfrutta e chi finge di non vederle.

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