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Cronaca
18 Agosto 2025 - 11:39
Sfruttamento prostituzione e racket e malaffare tra Torino e Settimo Torinese
Il meccanismo era semplice e spietato. Le ragazze venivano reclutate sui social con promesse ingannevoli: «Un lavoro da baby sitter in Italia, 1500 euro al mese». Ma appena arrivate a Torino, la favola si trasformava in incubo: appartamenti sovraffollati, documenti sequestrati, uscite vietate. «Non potevamo nemmeno affacciarci al balcone», ha raccontato una di loro, «dopo che una era scappata con un cliente».
Benvenuti a Torino, Via Pietro Cossa. Di giorno un’arteria qualsiasi della periferia torinese: qualche negozio, i bar che aprono al mattino, il traffico che scorre verso piazza Massaua. Ma basta attendere la sera, superate le otto, perché quella stessa strada cambi volto. Le vetrine si svuotano, i lampioni prendono il sopravvento, e sul marciapiede compaiono le sagome ordinate, quasi in processione, delle giovani trans che ogni notte si mettono in mostra. Non è una libera scelta, non è un mestiere improvvisato: è un copione che qualcun altro ha scritto per loro, con tanto di orari, tariffe e regole ferree.
Ogni metro di marciapiede ha un prezzo, e non basso: 250 euro da versare ai padroni invisibili che ne controllano lo sfruttamento. È il “fitto” del selciato, come se l’asfalto appartenesse a loro. Da lì in poi, il turno comincia alle 20.30 e si conclude solo alle sei del mattino. Venti minuti a cliente, non un secondo di più. Le cifre sono scolpite nella pietra: 20 euro per un rapporto orale, 30 per quello completo. Nessuna eccezione, nessuna possibilità di discutere. E se il cliente è disgustoso, puzza o è inguardabile, poco importa: come ha chiarito senza giri di parole uno degli indagati, intercettato dagli inquirenti, «Non esiste che il cliente ti debba piacere. Il cliente paga e basta».
A vegliare su questo commercio c’è Bruna, la figura che appare puntuale verso le due di notte. Mai la stessa macchina, sempre un autista diverso. Lei ritira l’incasso parziale e distribuisce il “necessario”: vestiti, trucchi, preservativi. Anche se questi ultimi, raccontano le vittime, non sempre vengono usati. Alla fine di una nottata, ciascuna di queste ragazze riesce a racimolare fino a 400 euro. Eppure, in tasca resta ben poco: qualche spicciolo per il caffè o le sigarette. Niente alcol, niente droga, vietati perché potrebbero attirare la polizia.
Il contrasto è stridente. La strada che unisce la Pellerina a piazza Massaua, di giorno assolata e quasi vuota, di notte si anima di kebabbari aperti 24 ore su 24, di clienti frettolosi, di protettori che osservano dall’ombra. Qui la criminalità straniera ha trovato terreno fertile, e la sezione della mobile che si occupa di tratta lo conferma: molte di quelle ragazze non sono libere. Sono ingranaggi di una macchina che parte migliaia di chilometri più in là, in Brasile, e che si chiude sulle notti torinesi.
La giudice Valentina Rattazzo, su richiesta dei pm Roberto Furlan e Valerio Longi, ha disposto il giudizio immediato per cinque imputati, tutti brasiliani, difesi dagli avvocati Francesca Caseri, Andrea Giovetti e Alberto Metallo. Le accuse parlano chiaro: tratta di esseri umani e sfruttamento della prostituzione di almeno dodici ventenni.
La difesa, naturalmente, contesta tutto: nessuna tratta, nessuna segregazione, solo scelte volontarie di chi ha deciso di emigrare per prostituirsi. Sarà il processo a stabilirlo. Ma intanto le testimonianze raccolte offrono un quadro molto diverso.
C’è la giovane che ha fatto partire l’indagine: un anno fa, approfittando di un momento di distrazione dei suoi guardiani, è riuscita a telefonare alla madre in Brasile. Da lì si è messa in moto la polizia federale sudamericana, con la collaborazione dell’Fbi. Il 24 settembre 2024 il console generale aggiunto del Brasile si è presentato in questura a Torino e ha raccontato la vicenda di Lavane: trovata su una sopraelevata, con in mano le chiavi di un alloggio in via Rieti, è stata portata via in fretta, nascosta in una casa protetta e infine rimpatriata.
Via Rieti era una delle tante basi logistiche: un monolocale con soppalco dove cinque o sei ragazze vivevano stipate, senza poter mettere piede fuori casa.
Alcune basi si trovavano anche a Settimo Torinese. Qui, lontano dai riflettori della grande città, la segregazione era persino più dura: porte blindate, finestre chiuse, un isolamento che trasformava gli appartamenti in prigioni. Settimo Torinese come vero ingranaggio della catena che alimentava il racket.
Ogni dettaglio di quell’inferno è stato confermato dalle testimonianze delle vittime: «Pensavo di lavorare in pizzeria. Invece la prima sera mi hanno buttata in strada. Ho pianto, ma le altre mi hanno convinta a non ribellarmi».
Non mancavano elementi quasi da romanzo nero. Una di loro ha raccontato che a Torino «tutte le trans sono comandate da Nayara», una sfruttatrice temuta, pronta a usare le armi e a ricorrere a riti religiosi del Candomblé per mantenere le ragazze sotto controllo psicologico.
Il denaro, una volta raccolto, non restava qui. Veniva spedito in Brasile per alimentare nuovi reclutamenti. E dalle intercettazioni emerge anche il cinismo con cui venivano selezionate le vittime: «Mandami le foto di tutto il corpo, non solo del viso, altrimenti rischiamo che siano brutte come la fame».
Per le ragazze le regole erano identiche, senza scappatoie. Maya ricorda: «Si lavora tutti i giorni. Il passaporto lo tengono i protettori. Se lo vuoi indietro, devi pagare 10mila euro. Tutti i soldi che guadagni finiscono a loro».
È il lato nascosto della città, quello che non appare nei depliant turistici né nei discorsi rassicuranti delle istituzioni. Un mondo che vive nelle ombre, alimentato dal silenzio e dalla paura, e che ora finirà davanti a un tribunale. Ma al di là delle carte processuali, resta la realtà di quelle notti torinesi: un susseguirsi di neon, kebab a buon mercato, marciapiedi affittati e vite consumate in venti minuti, sempre troppo lunghi per chi li subisce, sempre troppo brevi per chi li compra.
Ci si accorge di loro solo quando la cronaca giudiziaria bussa alla porta: un’indagine, un blitz, un processo. Allora emergono i nomi dei magistrati, degli avvocati, degli imputati. Ma ciò che non emerge mai è il silenzio che avvolge ogni notte quelle strade. Perché via Pietro Cossa a Torino, o un appartamento blindato a Settimo Torinese, non sono soltanto luoghi di sfruttamento. Sono specchi. Riflettono il fallimento di un’intera società.
Perché dietro i corpi venduti c’è sempre una storia negata. Una ragazza che ha creduto alle promesse di un futuro, un viaggio che inizia con un biglietto aereo e finisce con una porta chiusa a chiave. Per loro la parola “casa” diventa sinonimo di cella. In via Rieti dormivano in cinque o sei in un monolocale, senza poter uscire. A Settimo le finestre restavano serrate, trasformando l’isolamento in un incubo quotidiano.
Si parla di prostituzione come di un “fenomeno”, ma chiamarla fenomeno è già un alibi. La verità è che siamo davanti a una nuova forma di schiavitù. Una schiavitù moderna, che non ha bisogno di catene di ferro: bastano un passaporto sequestrato, un debito inventato, la minaccia di una pistola o il ricatto di un rito voodoo.
Eppure questa realtà convive con la nostra normalità. Mentre loro lavorano sotto i neon e i lampioni, noi attraversiamo la strada per andare a cena, ordiniamo un kebab, saliamo sul tram. Facciamo finta di non vedere. Non solo: ci indigniamo se le prostitute occupano “troppo” i marciapiedi, se disturbano il decoro urbano, se creano problemi al traffico. Mai che ci indigniamo per chi le sfrutta, per chi le costringe.
Il cliente, quello sì, continua a sparire da ogni narrazione. Ma senza il cliente non ci sarebbe mercato. Non ci sarebbero ragazze disposte in fila indiana, non ci sarebbero turni che iniziano alle otto e mezza e finiscono all’alba. È lui il vero motore, eppure resta invisibile, protetto dall’anonimato e dall’ipocrisia.
Fa piangere pensare che lo stesso territorio che ha costruito fabbriche, che ha dato lavoro e dignità a generazioni di operai, ora diventi il palcoscenico di un commercio di carne umana.
Settimo Torinese, con le sue aree industriali, non è soltanto una “periferia”: è diventata complice, ingranaggio silenzioso della catena dello sfruttamento.
E Torino, capitale del lavoro e dei diritti sociali, come può accettare che nel suo cuore si consumi questo scempio quotidiano? Perché le istituzioni parlano di sicurezza solo in termini di telecamere e pattuglie, mai di protezione vera per le vittime? Perché i tribunali arrivano sempre dopo, quando ormai i corpi sono già stati usati, i sogni già distrutti, le vite già spezzate?
Non è un problema di ordine pubblico. Non è neppure solo un problema giudiziario. È una questione morale. È una ferita collettiva che dovrebbe scuoterci tutti.
Ci piace pensare che la schiavitù sia un capitolo chiuso della storia. Non lo è. È qui, sulle nostre strade, nelle nostre periferie. Ha un nome e un volto.
Insomma, non basta raccontare. Se domani sera, a Torino come a Settimo, quelle o altre ragazze dovessero tornare in strada, significa che il nostro dolore non serve a nulla. La verità è che dietro ogni loro notte ci sono due colpevoli: chi le sfrutta e chi finge di non vederle.
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