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08 Aprile 2020 - 16:31
Bentornato, don Lisander! Chi lo avrebbe mai creduto? Fra le conseguenze più dirette della pandemia di Coronavirus, una sorprende più di altre: la riscoperta di Alessandro Manzoni. Ormai tutti lo citano, cronisti e blogger, insegnanti confinati tra le mura di casa e tartufeschi attori trasformatisi in epidemiologi, editorialisti e – ça va sans dire – politici. Le preferenze generali si polarizzano sui capitoli dal 31° al 36° del suo celeberrimo romanzo, quelli dedicati alla pestilenza milanese del 1630. Ma i più saputi, con l’aiuto di Wikisource e di altre diavolerie on-line, si avventurano oltre, proponendo arditi richiami alle Odi civili e alle Tragedie.
Tra una grida notturna e l’altra, non poteva mancare Giuseppe Conte. «In questi giorni, molti – si è lasciato andare a sostenere durante il dibattito parlamentare dello scorso 25 marzo – hanno riletto ed evocato, anche pubblicamente, le pagine sulla peste di Manzoni nei “Promessi sposi”: proprio in quest’opera viene ricordato un antico proverbio, ancora oggi fortemente in auge, per cui “del senno del poi son piene le fosse”» («del senno di poi ne son piene le fosse», a voler essere pignoli).
Che dire? Dall’Ottocento a oggi, il buon Alessandro Manzoni ha goduto di alterne fortune. Benedetto Croce e i critici idealisti non lo hanno particolarmente amato. Per tacere dei marxisti, da Antonio Gramsci ad Alberto Asor Rosa. Il fondatore del Partito comunista lo accusò di «compatimento scherzoso» degli umili, cioè di contegno elitario e aristocratico verso il popolo. Egli – asseriva Gramsci – «trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti solo in alcuni della classe alta», da fra Cristoforo a don Rodrigo, dall’Innominato al cardinale Borromeo. I popolani, invece, «non hanno personalità morale profonda» e sono presentati «in maniera sprezzante e ripugnante». In una parola, «essi sono animali». Secondo Gramsci, Manzoni si dimostrerebbe benevolo nei loro confronti come potrebbe esserlo «una cattolica società di protezione di animali».
Prescindendo da qualsivoglia opinabile tentativo di analisi letteraria, si tratta di giudizi sprezzanti e ingiuriosi che – com’è stato osservato con pari asprezza – «possono nascere quando uno legge il Manzoni pensando a Marx». Apprezzamenti di ben altro tenore hanno espresso noti critici marxisti, da Natalino Sapegno a Carlo Salinari e Giuseppe Petronio.
Spirito inquieto e tormentato, sempre controcorrente, Manzoni fu un autentico rivoluzionario, benché a scuola ci abbiano riferito che era tradizionalista e codino. Anche la sua conversione religiosa, costantemente soggetta al dubbio e bisognosa di conferme, si configura come un atto destabilizzante e rivoluzionario.
Quando fu paragonato a Ken Follett, autore di best sellers da milioni di copie, Umberto Eco se ne risentì, tacciando di «sciatterie nanesche» lo scrittore britannico e il suo «I pilastri della terra». «A Ken Follett – dichiarò – preferisco il più che mai attuale Alessandro Manzoni». Per Eco, «il capolavoro della letteratura italiana del diciannovesimo secolo» non può che essere «I promessi sposi»: «Tutti gli italiani, meno pochi, lo odiano, perché sono stati obbligati a leggerlo a scuola. Io debbo ringraziare mio padre, che mi ha incoraggiato a leggere questo romanzo prima che la scuola mi obbligasse, e per questo lo amo».
Bentornato, dunque, don Lisander, più moderno e innovatore di tutti coloro che adesso lo citano in modo non sempre opportuno! Bentornato al ribelle Manzoni che ha saputo unire la parte migliore di due culture, quella illuministico-razionalista e quella romantico-cattolica, raggiungendo altissimi esiti.
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