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07 Febbraio 2019 - 10:15
«Il Treno del Sole lo chiamavano. Era nero, nero di fuori, come tutti i treni, e di dentro […]. Il Meridione in fuga si portava dietro il nero di cui era fatto e ammantato. Il sole splende, ma scurisce la pelle e i lutti a catena – lunghissimi – fanno neri i vestiti per generazioni».
Così Renée Reggiani, una giornalista e scrittrice per ragazzi, descrisse il «Treno del Sole» e il suo carico di umanità dolente e speranzosa che attraversava l’Italia alla volta di Torino. Era il 1962. Il viaggio verso le «terre dell’abbondanza», alla ricerca dell’agognato benessere economico, con valigie logore e scatole avvolte nella carta da pacchi, si configurava come un’avventura.
Il «Treno del Sole» partiva ogni giorno da Palermo: a Messina agganciava le carrozze provenienti da Siracusa e Catania, per poi risalire l’intera penisola, seguito da un convoglio supplementare nei periodi di straordinario afflusso di passeggeri. Alle ore 9,50 dell’indomani, dopo 23 ore e 38 minuti, «il più lungo percorso senza trasbordi coperto in Italia da un convoglio ferroviario», il viaggio si concludeva nella stazione torinese di Porta Nuova.
«Indolenziti per il lungo viaggio […] sui sedili di legno della terza classe, chiusi dentro cappotti troppo lunghi e giacche troppo piccole», gli emigranti – ricorda Miriam Mafai, giornalista e parlamentare – erano «immediatamente riconoscibili per la loro goffaggine, per il modo prudente di guardarsi attorno, come stupiti di tutto, del freddo, della nebbia, del fumo denso, delle strade larghe, per il modo sospettoso di tenersi stretta la valigia di cartone dentro la quale si indovinavano le maglie pesanti di lana, fatte a mano, il pane di casa e le pizze unte di grasso di maiale e colorate dal peperoncino».
Per raggiungere Settimo Torinese, dal capoluogo subalpino, non mancavano i mezzi pubblici: oltre ai treni accelerati di cui si servivano quotidianamente i pendolari e ai convogli della ferrovia canavesana, c’erano gli autobus in partenza dal capolinea di via Gianfrancesco Fiochetto. Fu così che la popolazione di Settimo, fra il 1951 e il 1970, aumentò di tre volte e mezza. Più precisamente, dagli 11 mila abitanti del 1951, salì ai circa 13 mila del 1955, per passare ai 18.576 del 1961 e ai 26.367 del 1964, sfiorando i 38 mila cinque anni più tardi. Nel 1972 i settimesi saranno più di 43 mila.
La crescita fu devastante e determinò un profondo rimescolamento di famiglie, valori, tradizioni e costumi. Un intero mondo andò rapidamente dissolvendosi. Fra le bancarelle del mercato che si teneva ai piedi della torre medioevale, ormai risuonavano gli idiomi più diversi e sconosciuti. Il paese cedeva rapidamente il posto a un agglomerato di palazzi che pochi osavano definire città, non tanto perché carente di servizi, quanto perché privo di un suo orizzonte identitario e culturale.
Forte tra gli immigrati era il senso di sconcerto e di malessere. Dall’imposto abbandono di costumi, pratiche consuetudinarie e tradizioni dei luoghi d’origine derivavano impoverimento culturale e perdita di valori. «Quando sono venuto in Piemonte, mi sono trovato in difficoltà – riferirà un immigrato, operaio alla Vetroeuropa di Settimo – perché non conoscevo la gente, non conoscevo niente. I miei figli andavano a scuola e si trovavano peggio di me […]. Veramente è stata una cosa terribile per i bambini che hanno trovato un modo di agire e di parlare diverso».
Era l’amaro disincanto che il Nord riservava ai nuovi venuti.
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