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31 Dicembre 2025 - 12:08
Margherita Agnelli
Almeno 35 opere d’arte della collezione di Gianni Agnelli sarebbero uscite dall’Italia senza le autorizzazioni previste dalla legge. Quadri iconici, un tempo appesi alle pareti delle residenze storiche della famiglia, oggi irreperibili. È questo il cuore di un’inchiesta aperta dalla Procura di Roma, che intreccia diritto, patrimonio culturale e una delle più lunghe e aspre dispute ereditarie del Paese.
Secondo i magistrati, una parte consistente dei dipinti sarebbe finita all’estero, forse in Svizzera, senza il necessario nulla osta del Ministero della Cultura. L’indagine prende forma a partire da una lista di oltre cinquanta opere ricostruita dai legali di Margherita Agnelli, impegnata da anni in una battaglia giudiziaria con i figli John, Ginevra e Lapo Elkann. Inizialmente si parlava di 13 quadri mancanti. Poi l’elenco si è allungato: altri 22 dipinti, documentati da fotografie che li ritraggono esposti nelle dimore di famiglia prima della loro scomparsa.
La vicenda si muove dentro luoghi che non sono solo abitazioni private, ma spazi simbolici del collezionismo italiano: le ville di Torino e Roma, la residenza di Marrakech, ambienti legati in particolare a Marella Caracciolo, vedova dell’Avvocato. È da quelle pareti che, secondo le ricostruzioni, i quadri sarebbero stati progressivamente rimossi, senza che ne restasse traccia formale nei registri ufficiali.
A rendere il caso esplosivo non è solo il conflitto familiare, ma il peso dei nomi coinvolti. Nell’elenco compaiono Monet, Picasso, De Chirico, Modigliani, Bacon, Balthus. Non semplici beni di lusso, ma un canone visivo del Novecento, capace di raccontare rivoluzioni artistiche, gusto, storia culturale. Un patrimonio che, anche quando è privato, incrocia l’interesse pubblico per la sua rilevanza identitaria e storica.
Sul piano giudiziario, l’inchiesta è formalmente separata dalla causa ereditaria e al momento non risultano indagati. Le ipotesi di reato sono ricettazione ed esportazione illecita di opere d’arte. L’obiettivo è uno solo: rintracciare i dipinti e ricostruirne i movimenti. Se dovesse emergere che alcune opere sono state occultate per sottrarle all’asse ereditario, il quadro accusatorio potrebbe aggravarsi. È un terreno delicato, dove la tutela della legalità si misura con la necessità di garantire tracciabilità, trasparenza e rispetto delle norme sulla circolazione dei beni culturali.
Questa storia, però, va oltre la saga dinastica. Parla di regole, di controlli, di responsabilità. Parla di come un patrimonio artistico, anche quando nasce e cresce in collezioni private, finisca per rappresentare una memoria condivisa. Le fotografie che attestano la presenza dei quadri nelle residenze di famiglia, se confermate, diventano prove chiave in un mosaico investigativo che unisce diritto, storia del collezionismo e diplomazia culturale.
Le domande restano aperte. Quali sono esattamente i 35 lavori indicati? Dove si trovano oggi? La documentazione fotografica sarà sufficiente a ricostruire tempi e percorsi degli spostamenti? Tutte le comunicazioni dovute al Ministero sono state effettuate? E quanto questa inchiesta, pur dichiarandosi autonoma, finirà per incidere sugli equilibri della contesa ereditaria?
Una certezza c’è: quando in gioco ci sono opere di questo livello, ogni omissione pesa di più. Ricostruire il percorso dei quadri — dalle sale private alle tracce oltreconfine — non è solo un atto di giustizia, ma un esercizio di tutela simbolica. L’arte, quando racconta una storia collettiva, chiede di essere vista, registrata, custodita. Ed è proprio questo che oggi l’inchiesta prova a ristabilire.
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