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31 Dicembre 2025 - 07:02
Bombardamenti in Yemen tra alleati. Perché l’Arabia Saudita ha colpito un carico legato agli Emirati nel porto di Al-Mukalla?
La banchina di Al-Mukalla, illuminata dai fari, e il profilo di mezzi corazzati coperti da teloni: è qui, nel porto della capitale dell’Hadramawt, che all’alba del 30 dicembre 2025 la coalizione guidata da Arabia Saudita ha colpito quello che definisce un deposito improvvisato di armamenti appena sbarcati da due navi arrivate dal porto emiratino di Fujairah. L’azione, presentata come “limitata” e di precisione, non avrebbe provocato vittime né danni collaterali, secondo la versione ufficiale diffusa dall’agenzia statale Saudi Press Agency (SPA) e ripresa da media internazionali. Ma l’impatto politico dell’attacco va ben oltre lo scalo yemenita: investe il rapporto tra Riyadh e Emirati Arabi Uniti, già segnato da frizioni sul terreno, e rimescola gli equilibri del fronte anti-Houthi.
Secondo il portavoce della coalizione, il generale Turki al-Malki, due imbarcazioni “partite da Fujairah” sarebbero entrate nel porto di Al-Mukalla tra il 27 e il 28 dicembre “senza le autorizzazioni del Comando congiunto”, avrebbero “disattivato i sistemi di tracciamento” e scaricato “una grande quantità di armi e veicoli da combattimento” destinati alle forze del Consiglio di Transizione del Sud (STC, Southern Transitional Council), il principale gruppo separatista del Sud sostenuto da Abu Dhabi. Da qui la decisione di effettuare, la mattina del 30 dicembre, una “operazione militare limitata” per neutralizzare quei materiali prima della loro redistribuzione. La coalizione ribadisce che non ci sarebbero state vittime né danni alle infrastrutture portuali.
#VIDEO: Footage shows the Coalition’s military operation at Al-Mukalla Port early Tuesday. pic.twitter.com/0oiDRox4XI
— Saudi Gazette (@Saudi_Gazette) December 30, 2025
Alcuni media hanno rilanciato immagini e brevi clip fornite dalle autorità saudite che mostrerebbero l’arrivo delle due navi e i mezzi scaricati in banchina. La ricostruzione di Riyadh collega l’episodio alla recente avanzata dello STCnell’Est del Paese, sostenendo che abbia alterato gli equilibri tra le fazioni anti-Houthi e violato gli impegni di de-escalation, oltre a contravvenire alla Risoluzione 2216 (2015) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (ONU)sullo Yemen.
La risposta degli Emirati Arabi Uniti è netta. Il ministero degli Esteri emiratino afferma che “la spedizione non conteneva armi” e che i veicoli erano destinati alle “forze emiratine operanti in Yemen”, non a “qualunque attore yemenita”; inoltre, l’arrivo del carico sarebbe stato “coordinato con Riyadh”. È la linea ribadita in note ufficiali e riportata da agenzie e quotidiani internazionali, accompagnata dall’annuncio, arrivato poche ore dopo l’attacco, della fine della missione residua dei reparti emiratini nel Paese.
Nel corso della giornata, responsabili di Abu Dhabi hanno comunicato il “ritiro volontario” delle ultime unità di contro-terrorismo ancora presenti sul territorio yemenita, completando un processo avviato con il ridimensionamento del 2019. Una decisione che ha un peso politico oltre che operativo e che rende esplicito il dissenso con l’Arabia Saudita, mettendo in discussione la catena di comando di una coalizione formalmente unita contro i ribelli Houthi, ma attraversata da obiettivi divergenti nel Sud del Paese.
Il raid nel porto dell’Hadramawt rappresenta il punto di arrivo di tensioni accumulate negli ultimi mesi. Riyadhsostiene la priorità di uno Yemen unito sotto l’egida del Consiglio di Leadership Presidenziale, guidato da Rashad al-Alimi, mentre gli Emirati Arabi Uniti hanno investito politicamente e militarmente su una rete di forze locali, a partire dallo STC, che mantiene una piattaforma apertamente secessionista. Questo doppio binario si è già tradotto in frizioni sul campo; Al-Mukalla ne offre ora una rappresentazione evidente, con il rischio di aprire un fronte parallelo alla guerra contro gli Houthi.
Nei giorni precedenti all’attacco, la coalizione aveva intimato ai separatisti di “ritirarsi pacificamente” dalle aree recentemente conquistate, avvertendo che qualunque azione militare contro il governo riconosciuto sarebbe stata “gestita direttamente” dalle forze guidate da Riyadh. Un avvertimento che oggi appare come il preludio alle operazioni aeree su Al-Mukalla.
Dopo il raid, fonti governative yemenite hanno ventilato misure d’emergenza. Secondo resoconti di stampa, Sana’acontrollata dal governo riconosciuto avrebbe disposto una temporanea chiusura di frontiere e porti per 72 ore nelle aree non sotto controllo Houthi e valutato restrizioni allo spazio aereo. In parallelo, sarebbe stata avanzata la richiesta di un ritiro accelerato di qualunque presenza militare emiratina, con toni ultimativi. Si tratta di provvedimenti riportati da agenzie e quotidiani internazionali, la cui applicazione concreta resta in parte da verificare.
Gli effetti immediati sono comunque visibili. Lo stesso scalo di Al-Mukalla è stato indicato dalla coalizione come area da evacuare per motivi di sicurezza, segnale che un’ulteriore operazione per forzare un arretramento dello STC resta un’opzione sul tavolo.
Il Consiglio di Transizione del Sud (STC), emerso nel 2017, ha consolidato la propria influenza su Aden e su ampie porzioni del Sud con il sostegno politico e addestrativo degli Emirati Arabi Uniti. Negli ultimi mesi, i suoi reparti e i gruppi a esso allineati hanno guadagnato terreno in aree orientali come Hadramawt e Al-Mahra, snodi logistici e commerciali cruciali e territori sensibili per l’Arabia Saudita. È qui che Riyadh individua la posta strategica: il controllo delle rotte, dei valichi e delle coste che si affacciano sul Golfo di Aden e sul corridoio terrestre verso il regno.
La progressione dello STC ha accentuato le tensioni all’interno del Consiglio di Leadership Presidenziale, dove siedono figure vicine sia a Riyadh sia ad Abu Dhabi. La contrapposizione agli Houthi non basta più a tenere insieme il fronte: gli obiettivi su governance e controllo territoriale nel Sud e nell’Est divergono, e Al-Mukalla ne è oggi un indicatore concreto.
Sul piano operativo, Riyadh insiste su alcuni elementi: l’ingresso delle due navi “senza permesso”, lo spegnimento dei transponder, lo sbarco di “armi e veicoli da combattimento” e l’adozione di “regole d’ingaggio rigorose” per evitare danni collaterali, con l’affermazione che “non ci sono state vittime”. Le dichiarazioni coincidono nelle ricostruzioni di testate regionali e internazionali e richiamano esplicitamente la Risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza ONU.
Gli Emirati Arabi Uniti descrivono invece la spedizione come un’operazione logistica coordinata e ribadiscono che i mezzi non erano destinati a milizie yemenite. La smentita riguarda in particolare l’ipotesi di rifornimenti diretti allo STC. L’annuncio del ritiro degli ultimi reparti completa la contro-narrazione emiratina: nessuna escalation cercata e la scelta di ridurre il rischio di uno scontro tra alleati. A complicare il quadro, le prese di posizione dello STC, che rivendica il diritto di “proteggere le popolazioni del Sud” e di difendere “i risultati raggiunti”, segnando una distanza ulteriore dal governo riconosciuto e da Riyadh.
La crisi riapre un dossier regionale delicato: la tenuta del rapporto tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, già messo alla prova da divergenze su OPEC+ (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio Plus), traffici nel Mar Rosso e, soprattutto, dal diverso disegno sul futuro dello Yemen. La priorità condivisa di contenere le minacce degli Houthi, responsabili di attacchi a rotte marittime e obiettivi regionali, convive con una competizione per l’influenza nel Sud yemenita. In questo contesto, un episodio tattico come quello di Al-Mukalla assume una valenza strategica, segnalando agli attori locali quali sponsor esterni siano in grado di proiettare forza rapidamente.
Per i partner occidentali, a partire da Stati Uniti e Unione Europea, il rischio è duplice: la frammentazione del fronte anti-Houthi può prolungare il conflitto e aumentare l’instabilità lungo le rotte del Golfo di Aden e del Mar Arabico; allo stesso tempo, la crisi tra i due principali alleati del blocco arabo complica ogni tentativo di mediazione. Nelle ore successive all’attacco non sono mancati appelli alla “massima moderazione” da parte di attori multilaterali e capitali occidentali.
L’episodio si inserisce in un contesto umanitario già compromesso. La guerra in Yemen, iniziata nel 2014 e internazionalizzata nel 2015, ha prodotto centinaia di migliaia di vittime dirette e indirette e una crisi alimentare cronica. Alcune stime richiamate da media internazionali parlano di circa 377.000 morti complessivi negli anni più intensi del conflitto. In questo quadro, l’ipotesi di uno scontro intra-coalizione nel Sud è considerata da molti operatori umanitari uno scenario da evitare.
Restano aperte diverse questioni. La natura esatta dei materiali colpiti non è verificabile in modo indipendente, né è possibile una stima puntuale dei danni. Il ritiro emiratino, annunciato come completo, dovrà essere valutato nei tempi e nelle modalità concrete per capire se e come cambieranno gli equilibri di sicurezza nel Sud e nell’Est. Resta inoltre incerta la possibilità di un compromesso politico tra il governo riconosciuto e lo STC, mentre la minaccia di nuove operazioni indica che la pressione militare non è esclusa.
Il porto di Al-Mukalla è un nodo della geografia commerciale che collega il Golfo a Suez. Ogni tensione che coinvolge gli scali yemeniti meridionali si riflette sui costi assicurativi, sulla sicurezza della navigazione e sulle missioni navali di Paesi terzi. In un periodo segnato da attacchi e operazioni contro le capacità missilistiche degli Houthi, la stabilità degli approdi yemeniti è tornata a essere un fattore di rischio globale. È anche per questo che Riyadh insiste sul rispetto delle catene di comando e degli embarghi interni al teatro bellico, mentre Abu Dhabi rivendica la legittimità delle proprie scelte operative.
In sintesi, un raid che secondo la versione ufficiale non ha causato vittime ha riacceso un confronto politico e strategico che covava da tempo. Con il rischio concreto che a subirne le conseguenze siano ancora una volta i civili yemeniti e una stabilizzazione che continua a essere evocata più che realizzata.
Fonti: Saudi Press Agency (SPA), Ministero della Difesa dell’Arabia Saudita, Ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Nazioni Unite (Consiglio di Sicurezza ONU), Reuters, Associated Press, Al Jazeera, The Washington Post, BBC, ONU – OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs).
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