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Chi erano Sajid Akram e Naveed Akram, cosa sapevano polizia e ASIO, come hanno colpito sul lungomare più famoso d’Australia e perché il sistema di controlli non ha funzionato

Le bandiere dello Stato Islamico, le licenze regolari, il monitoraggio dell’ASIO mai sfociato in allarmi. Cosa non ha funzionato nel sistema di sicurezza australiano dopo l’attacco del 14 dicembre 2025 sul lungomare di Bondi

Chi erano Sajid Akram e Naveed Akram, cosa sapevano polizia e ASIO, come hanno colpito sul lungomare più famoso d’Australia e perché il sistema di controlli non ha funzionato

Chi erano Sajid Akram e Naveed Akram, cosa sapevano polizia e ASIO, come hanno colpito sul lungomare più famoso d’Australia e perché il sistema di controlli non ha funzionato

La prima sirena rompe il silenzio di Bondi quando il sole non è ancora del tutto scomparso dietro l’oceano. È la sera di domenica 14 dicembre 2025, prima notte di Chanukkà, sul lungomare più noto d’Australia. Dal ponte di Campbell Parade, due figure aprono il fuoco sulla folla radunata ad Archer Park per la celebrazione organizzata da Chabad of Bondi. Sparano in rapida successione, poi tentano la fuga. Nelle ore successive il bilancio oscilla: prima quindici vittime, poi sedici, includendo uno dei due attentatori. I feriti sono decine. All’interno dell’auto utilizzata per arrivare sul posto, gli investigatori trovano due bandiere dello Stato Islamico. A sparare, secondo quanto ricostruito finora, sono un padre e un figlio: Sajid Akram, 50 anni, e Naveed Akram, 24. Il primo viene ucciso durante l’intervento della polizia, il secondo finisce in ospedale, piantonato. Le domande, però, restano aperte: chi erano davvero, come hanno pianificato l’attacco, e perché segnali già emersi in passato non hanno prodotto un allarme duraturo.

Nelle quarantotto ore successive prende forma un quadro investigativo che ricostruisce una traiettoria familiare e individuale. Sajid Akram era arrivato in Australia nel 1998 con un visto da studente e da circa dieci anni possedeva una regolare licenza per armi da fuoco. Secondo la NSW Police (New South Wales Police), le armi utilizzate nell’attacco risultano registrate a suo nome. Un dettaglio che ha immediatamente acceso un dibattito nazionale sulla solidità del sistema di licenze e sui controlli preventivi. Gli investigatori avrebbero recuperato fino a sei armi riconducibili a Sajid, tutte formalmente legali. Sono in corso verifiche sulla loro custodia e sugli spostamenti nei giorni precedenti la strage. La famiglia risiedeva a Bonnyrigg, nella zona sud-occidentale di Sydney. Poco prima dell’attacco, padre e figlio avevano affittato un appartamento Airbnb a Campsie, utilizzandolo come base logistica per il trasporto delle armi e per la preparazione di ordigni rudimentali che, secondo quanto accertato finora, non sono esplosi. Gli inquirenti parlano di dispositivi elementari, compatibili con manuali che circolano da anni negli ambienti jihadisti online.

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Il profilo di Naveed Akram era già comparso nei radar delle autorità. Nel 2019, il suo nome era stato attenzionato dall’ASIO (Australian Security Intelligence Organisation), i servizi di sicurezza interni australiani, per sospetti contatti con ambienti jihadisti. Si trattava di un monitoraggio informativo che non aveva portato ad arresti né a imputazioni: all’epoca, spiegano ora fonti di polizia e intelligence, gli elementi raccolti non erano sufficienti per misure restrittive. Nella ricostruzione attuale emergono anche contatti indiretti con persone successivamente condannate per affiliazione all’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria), ma senza riscontri operativi concreti in quel momento. Un dato che oggi pesa, e che sarà centrale nelle future verifiche istituzionali.

La dinamica dell’attacco si consuma in pochi minuti, tra le 18:47 e le 19:00. I colpi partono dall’alto verso la folla. La reazione è immediata e disordinata: persone che fuggono, genitori che sollevano i figli per portarli lontano, volontari che cercano di guidare evacuazioni improvvisate tra gazebo e bancarelle. In quei momenti si distingue la figura di Ahmed al Ahmed, un civile che affronta uno degli aggressori, riuscendo a disarmarlo per alcuni istanti prima di essere colpito e ferito. Il suo gesto consente di guadagnare tempo prezioso fino all’arrivo delle forze dell’ordine. La polizia apre il fuoco, Sajid Akram viene ucciso, Naveed Akram ferito e arrestato. Sul posto restano bossoli e zaini; poco distante, gli artificieri individuano e neutralizzano gli IED (Improvised Explosive Devices, ordigni esplosivi improvvisati). I testimoni parlano di dieci o venti minuti di terrore, in un luogo considerato simbolo di normalità e sicurezza.

Il ritrovamento delle due bandiere dello Stato Islamico nell’auto dei due attentatori orienta fin da subito la lettura dell’evento. Secondo fonti del Joint Counter Terrorism Team (JCTT), la squadra congiunta che riunisce NSW Police, AFP (Australian Federal Police) e ASIO, è probabile un riferimento ideologico diretto all’organizzazione jihadista, se non una vera e propria dichiarazione di fedeltà. Al momento non esiste una rivendicazione ufficiale, e gli investigatori mantengono cautela, ma l’insieme di simboli, bersaglio religioso e modalità operative viene considerato coerente con un attacco di matrice jihadista e antisemita.

L’appartamento di Campsie è ora uno dei nodi centrali dell’inchiesta. L’utilizzo di un alloggio temporaneo in un’area diversa da quella di residenza rientra in una tattica nota per ridurre il rischio di controlli. Qui sono stati sequestrati materiali per la costruzione degli ordigni, munizioni e documenti utili a ricostruire la pianificazione. Resta da chiarire se vi siano stati complici esterni o se l’azione sia rimasta confinata al nucleo padre-figlio. Per ora, le autorità parlano di una cellula ristretta, senza evidenze di una rete più ampia.

Il fatto che le armi fossero regolarmente detenute rappresenta l’aspetto più delicato sul piano politico. Sajid Akrampossedeva una licenza per armi lunghe, tipicamente utilizzate da cacciatori o iscritti a club di tiro. L’Australia viene spesso citata come esempio di rigore dopo le riforme introdotte nel 1996 in seguito alla strage di Port Arthur, con programmi di riacquisto e registri stringenti. L’attacco di Bondi, il più letale da allora, solleva però interrogativi sulla capacità del sistema di intercettare situazioni di rischio all’interno di contesti formalmente regolari. Da Canberra, il tema è già entrato nell’agenda politica. Il primo ministro Anthony Albanese ha annunciato l’intenzione di portare in Parlamento modifiche alle leggi sulle licenze, sulle tipologie di armi consentite e soprattutto l’istituzione di un registro nazionale unico per monitorare la proprietà delle armi nei sei Stati e due Territori della Federazione.

Sul piano operativo, nelle ore successive all’attacco sono state perquisite l’abitazione di Bonnyrigg e l’Airbnb di Campsie. Due persone legate al nucleo familiare sono state fermate per accertamenti, senza accuse formali al momento. Naveed Akram resta ricoverato in condizioni critiche ma stabili. Le indagini procedono con analisi balistiche, forensi e digitali, incrociando tabulati telefonici, celle, immagini di videosorveglianza e dati dai dispositivi sequestrati.

In Parlamento, il governo Albanese lavora su una revisione complessiva del sistema: restrizioni sulle categorie di armi accessibili ai civili, riduzione della durata delle licenze con controlli più frequenti e creazione di un registro nazionale integrato, capace di incrociare automaticamente dati di sicurezza e amministrativi. L’obiettivo dichiarato è evitare che compartimenti stagni tra enti diversi producano zone d’ombra. Il dibattito riguarda anche i limiti costituzionali e la tutela della privacy, oltre al rischio di segnalazioni errate.

L’attacco di Bondi riapre infine una riflessione più ampia sulla sicurezza degli spazi pubblici e sull’antisemitismo. Colpire una celebrazione di Chanukkà in un luogo ad alta visibilità risponde a una logica di massima esposizione simbolica. Le modalità dell’azione indicano una preparazione che va oltre l’improvvisazione. Le autorità temono ora l’effetto imitazione e invitano alla vigilanza senza alimentare sospetti indiscriminati.

Restano numerosi punti da chiarire: la filiera di vendita delle armi, eventuali viaggi in aree sensibili del Sud-est asiatico, i contatti digitali e i materiali di propaganda, le misure di sicurezza sul ponte di Campbell Parade, e soprattutto il mancato collegamento tra il monitoraggio del 2019 e la presenza di armi legali all’interno del nucleo familiare. Questioni che una commissione indipendente dovrà affrontare pubblicamente.

Tra le storie emerse, quella di Ahmed al Ahmed assume un valore civico. Il suo intervento ha dimostrato come, nei primi istanti di un attacco, anche pochi secondi possano fare la differenza. Allo stesso tempo, l’evento mette in luce la necessità di una preparazione minima per eventi pubblici, dalla gestione delle vie di fuga alle istruzioni sonore chiare.

L’Australia si trova ora davanti a uno specchio scomodo. Il modello di controllo delle armi non viene cancellato da quanto accaduto a Bondi, ma ne emergono limiti evidenti quando radicalizzazione domestica, licenze legali e informazioni di intelligence non si incontrano in tempo utile. La risposta annunciata da Canberra è un primo passo. La sua efficacia dipenderà dalla capacità di prevenire, non solo di reagire, in un contesto in cui strumenti legali e routine amministrative possono essere sfruttati per colpire.

Fonti utilizzate: NSW Police, Australian Federal Police (AFP), Australian Security Intelligence Organisation (ASIO), Joint Counter Terrorism Team (JCTT), dichiarazioni ufficiali del Governo australiano e del Primo ministro Anthony Albanese, resoconti dei media australiani.

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